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 2022  gennaio 08 Sabato calendario

Dante in bocca ai politici


Celebrando solennemente la figura di Dante nel settecentesimo anniversario della sua morte, il presidente Sergio Mattarella l’ha definito «il grande profeta dell’Italia, un patriota visionario, destinato, quasi biblicamente, a scorgere ma non a calcare la Terra vagheggiata e promessa», e ha ribadito che il suo «contributo artistico, culturale e linguistico alla formazione dell’Italia è immenso e inestimabile». A breve, i parlamentari di Camera e Senato (e i delegati regionali) si riuniranno per eleggere il nuovo presidente della Repubblica: chissà se, sulla scia dell’anno di celebrazioni appena passato, finiranno con il contendersi la posta proprio a colpi di citazioni dantesche.
Magari stupendo l’uditorio con una citazione non altrimenti nota. Proprio come ha fatto il 24 febbraio dell’anno scorso Rossano Sasso, deputato della Lega e sottosegretario all’Istruzione, con un tweet che cominciava: «“Chi si ferma è perduto mille anni ogni minuto” (Dante Alighieri)». Non altrimenti nota, perché ricavata dalla rivisitazione del XV canto nella parodia Disney dell’Inferno, in cui Dante/Topolino incontra – con edulcorata allusione a Brunetto Latini – il suo antico maestro di scuola, costretto a correre tra le fiamme.
Pane quotidiano
Tornando indietro di qualche anno, si potrebbe ricordare Matteo Renzi che il 13 gennaio 2015 polemizzava al parlamento europeo con Matteo Salvini e il suo gruppo («leggere più di due libri per alcuni di voi è difficile, lo capisco»). E subito dopo citava con grande enfasi un verso di Inferno XXVI: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtù – virtute – e conoscenza»; lui che ha sempre amato citare Dante, perché «Dante era un ganzo», «detta male: gli garbava di vivere» (Stil novo. La rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter, Bur, 2012).
Stil novo fino a un certo punto, perché le citazioni dantesche in politica sono da sempre pane quotidiano e anche la storia del Dante usato contro lo schieramento di centrodestra non è così nuova. Era il novembre 2010 quando dai banchi del Pd alla Camera arrivarono tre diversi interventi in polemica con una frase attribuita all’allora ministro delle Finanze Giulio Tremonti (che successivamente ha sempre negato di averla detta). Quella sul fatto che «con la cultura non si mangia», che «non si mangia il panino con la Divina commedia». Una polemica involontariamente riaperta dal poster che alcuni trippai fiorentini hanno esposto nell’anno dantesco appena trascorso: «Nel mezzo del panin senza mollica/ mi ritrovai la salsa rosso scura/ che tanto al lampredotto va gradita».
Dantismi da camera
Grazie alla banca dati messa a disposizione nel sito della Camera, che raccoglie i resoconti di tutti dibattiti dal 1848 al 2018 (compresi quelli dell’Assemblea costituente), è possibile ricostruire una documentata storia dell’uso di Dante nella politica italiana.
Già il 14 giugno 1848, a poco più di tre mesi dalla promulgazione dello Statuto albertino, Cesare Leopoldo Bixio – già carbonaro vicino a Mazzini – dice: «V’ha poi chi cita ad ogni tratto Dante e Petrarca; questo non è il mandato che abbiamo ricevuto dal popolo». Ma viene subito rimbeccato dai deputati Ravina (per cui Dante «è profondo politico, nelle cui massime vorrebbe addentrata tutta la Camera») e Siotto Pintor, che – recita il verbale – «sorge per difendere, anzi commendare consimili citazioni».
Giovanni Siotto Pintor, magistrato che sedette nelle file della sinistra storica prima da deputato e poi da senatore, è in effetti uno di quei parlamentari che si caratterizzarono come citatori seriali di Dante. «Dantofili», «dantolatri», «dantomani» potrebbero essere definiti, ricorrendo a tre neologismi che ebbero grande fortuna nel periodo tra i due centenari danteschi del 1865 (seicento dalla nascita) e del 1921 (seicento dalla morte), in quella che qualcuno chiamò «epidemia commemoratizia». Alla schiera appartenevano pure – ai primi del Novecento – l’avvocato Raffaello Giovagnoli, dapprima anche lui nella sinistra e poi ardente crispino («Vede, onorevole Giovagnoli, che le rubo il mestiere delle citazioni dantesche», ironizza una volta il socialista Filippo Turati) e Francesco Tedesco, giolittiano più volte ministro in vari governi: «Permettetemi una citazione dantesca: è il mio debole»; «Poiché da un pezzo non faccio nessuna citazione dantesca, mi si permetta di farne una».
Seriali, ma mai recidivi come quei deputati che a distanza di anni ripetono a più riprese la stessa frase dantesca. Come nel caso – coincidente con due varianti della stessa citazione – del repubblicano Roberto Mirabelli («e verbo non ci appulcro»: 25 marzo 1892, 9 maggio 1902, 19 dicembre 1906) e più tardi del missino Olindo Del Donno («e parole non ci appulcro»: 24 settembre 1985, 3 dicembre 1987, 9 maggio 1989).
Schermaglie dantesche
L’abilità dell’oratore consisteva, almeno fino al primo Novecento, nello sfoderare citazioni non troppo ovvie: altrimenti c’era il rischio di un effetto opposto a quello desiderato. Esattamente quello che capitò – racconta Paolo Bellezza nel suo Curiosità dantesche – quando il 27 febbraio 1905 il radicale cavallottiano Cornelio Guerci cominciò: «“Le leggi son...” e la Camera in coro: “ma chi pon mano ad elle”?». (Gli atti della Camera, in realtà, riportano solo una reazione dell’aula in forma di «Oh! Oh! Rumori»). Già nel 1889, d’altronde, il deputato dell’estrema sinistra Bonaventura Mazzarella aveva auspicato che per aggiornare l’usurata citazione «si fosse apportata una piccola modificazione al verso, e si fosse detto piuttosto: “Le mani son, ma chi pon legge ad esse?” (Ilarità prolungata)».
A proposito di schermaglie dantesche, la più celebre resta forse quella legata a un intervento di Giovanni Giolitti nella seduta del 21 giugno 1901. Parlando di scioperi agricoli, l’allora presidente del consiglio evocò «quello che Dante chiamava “Lo dolce piano/ che da Vercelli a Marcabò declina” (Ooooh! A destra). Vi pare una colpa avere letto Dante? (Approvazioni da sinistra – Interruzioni da destra). Va bene, per non farvi dispiacere non citerò più Dante (Si ride a sinistra)». Solo che la citazione non era proprio di prima mano, come il giorno dopo fece notare in aula il repubblicano Salvatore Barzilai fra altrettante risate: «Ieri l’onorevole Giolitti ha citato un verso di Dante che se non sbaglio egli ha cavato fuori dal programma di Stradella del defunto Depretis (Viva ilarità)». Un episodio così presente alla memoria dei politici da essere evocato ancora nel 1948, in un intervento del comunista Gian Carlo Pajetta contro il democristiano Alcide De Gasperi: «Abbiamo avuto un discorso del presidente del consiglio che non ci ha soddisfatto, anche se ispirato perfino ad una citazione dantesca. Giolitti una volta si rese celebre con una citazione dantesca (Commenti)».
Per dirla con Dante
In effetti, sappiamo quanto a De Gasperi la memoria dell’Alighieri fosse cara: Per dirla con Dante. Tracce dantesche negli scritti di Alcide De Gasperi s’intitola un recente intervento di Matteo Largaiolli. Già, «per dirla con Dante»: ma per dire cosa e soprattutto come? Guardando alle formule con cui vengono introdotte nella storia dei dibattiti alla Camera le citazioni dantesche, il richiamo esplicito ai «versi di Dante» risulta prevalentemente ottocentesco, e la stessa cosa si può dire dell’ancor più classico riferimento all’ipse dixit: «Come dice / ha detto / disse Dante». A questa modalità che potremmo definire per similitudine, si contrappone appunto quella per sovrapposizione: «per dirla con Dante», particolarmente di moda nella prima età repubblicana (De Gasperi docet). E lo stesso vale per il richiamo diretto alla Divina commedia, che non implica affatto l’automatismo di una citazione: «Onorevole relatore, ho sottoposto il testo ad una interpretazione non solo letterale ma anche anagogica – come si fa per i canti della Divina commedia – ma non sono riuscito a comprendere le intenzioni degli estensori», ironizza Gastone Parigi dell’Msi in una seduta del settembre 1993. Notevole, tra gli epiteti, quello di «padre Dante»: il Dante padre della patria (e della lingua) che dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento rimane una presenza costante.
Passando dal come al cosa, si nota che il richiamo all’auctoritas di Dante è sempre strumentale e rientra in quelli che – schematizzando al massimo – possono essere individuati come quattro tipi di funzione: «probatoria», in cui le parole di Dante sono usate per confermare la validità di un’affermazione o di un ragionamento (ossia come vera auctoritas); «analogica», quando si piega un passo dantesco alla realtà di cui si sta parlando (la più frequente, perché consiste nell’attualizzazione dell’auctoritas); «esornativa», quando la citazione è del tutto irrelata non solo al contesto ma anche alla fonte (l’auctoritas è ridotta al massimo della genericità); «ironica», quando mira a suscitare il riso dell’aula (l’auctoritas è usata per iperbole o e contrario).
Sanza lodo
Nei vari modi in cui sono riportate le frasi dantesche, molto significative sono le oscillazioni tra diverse varianti della stessa citazione: varianti dovute alle diverse edizioni di riferimento, alla diversa memoria di chi le cita e alla diversa forma in cui vengono verbalizzate. Di una stessa frase, dunque, si possono avere nel tempo tutte le possibili forme combinatorie («infra duo/ intra due/ intra duo/ infra due cibi») o si può ricostruire la progressiva banalizzazione: «senza infamia e senza lode», ad esempio, è citata solo due volte con la più corretta forma lodo; mai con la variante filologica sanza. Particolarmente interessante è il caso del «guarda e passa», che per tutto l’Ottocento si accompagna soprattutto al verbo ragionare come nella vulgata del testo dantesco («non ragioniam di lor, ma...»); dalla seconda metà del Novecento appare invece preceduto dal verbo curare («non ti curar di loro, ma...»), secondo una variante segnalata già in citazioni sei-settecentesche.
Curiose sono anche le convergenze registrate su alcune specifiche varianti. Come per il corretto «libertà va cercando», di cui si registrano solo due casi a fronte dei sette di «vo cercando»: uno del garibaldino Riccardo Luzzatto, in camicia rossa; l’altro del missino Carlo Tassi, che qualcuno chiamò «il deputato in camicia nera». O come per «Nati non fummo a viver come bruti», variante adottata negli anni Cinquanta del Novecento dal comunista Ugo Marchesi e dal democristiano Giuseppe Maria Bettiol: una specie di compromesso storico ante litteram.
Il potere atemporale
Anche i pochi riferimenti fatti finora bastano a confermare che siamo sempre di fronte a quei «giuochi di lanterna magica, per cui Dante si fa servire a tutti i partiti, a tutte le idee», come Giosue Carducci osservava già nel lontano 1880. D’altra parte – secondo una battuta attribuita a Francesco Guerrazzi, altro scrittore dell’Ottocento – «Dante è una delle tre cose che condividono con la gomma la prerogativa dell’elasticità – le altre due, per chi non lo sapesse, sono la Bibbia, e, naturalmente, la coscienza».
In questo sta ciò che si potrebbe chiamare il potere atemporale di Dante: quel Dante metastorico che fin dall’Ottocento può essere citato – da destra, dal centro e da sinistra – in discorsi che trattano di linee telefoniche e ferroviarie, di industrie e di turismo. Quella che cambia nel tempo non è tanto la quantità, quanto piuttosto la varietà dei richiami. La progressiva perdita di profondità della memoria dantesca fa sì che le citazioni vere e proprie tendano a rarefarsi, mentre si rafforza la presenza dei dantismi fraseologici: versi del poema divenuti modi di dire proverbiali. È vero, infatti, che certe espressioni – come «fuor del/dal pelago», «color(o) che son(o) sospesi», «lasciate ogni speranza» – vanno via via scemando e altre raggiungono il loro picco nel primo Novecento («cose che il tacere è bello», «dalla cintola in su/ giù»). Ma ce ne sono alcune che invece si fanno via via più frequenti fino alla fine del Novecento («per li rami», «le vene e i polsi», «colà dove si puote», «guarda e passa») o in quello stesso periodo risalgono quasi ai livelli ottocenteschi. Così accade per la già vista «le leggi (ci/vi) son(o)», per «il gran rifiuto» e anche per l’espressione che – forse non a caso – risulta in assoluto la più frequente nella storia della Camera dei deputati; l’unica che continua a vantare significative attestazioni anche nella cosiddetta Seconda repubblica: «Le dolenti note».