La Lettura, 8 gennaio 2022
Quando i figli vanno in galera con le madri
Nell’aprile del 2021 sono stato in visita nell’istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) di Lauro, in provincia di Avellino. Volevo guardare da vicino una realtà di cui avevo spesso sentito parlare, ma che conoscevo poco e mi incuriosiva molto.
Gli Icam sono istituti a custodia attenuata nei quali vengono rinchiuse le madri con i figli quando per i bambini non esistono altre soluzioni possibili all’esterno. La legge in vigore è la 62 del 2011. Prevede misure alternative al carcere per le donne con figli fino ai sei anni di età (salvo esigenze eccezionali), ovvero, appunto, Icam e case-famiglia protette. La finalità è non traumatizzare eccessivamente i bambini, che in quella fase della vita devono poter restare sotto la tutela della madre, quando questa lo richieda.
Inizialmente le detenute internate negli Icam erano responsabili di reati di minore gravità, contro il patrimonio, ora vi sono anche donne che scontano pene lunghe per reati più gravi contro la persona. In Italia esistono cinque Icam, uno di questi è a Lauro, come detto, tra i monti dell’Irpinia. Al 31 gennaio 2021 erano 29 i bambini (13 dei quali stranieri) in carcere con le proprie madri (8 nell’Icam di Lauro), «numeri bassi», se così si può dire della vita di creature innocenti, che forse per questo non attraggono l’interesse della politica. A oggi esiste una proposta di legge a prima firma dell’onorevole Paolo Siani (Partito democratico) che mira a eliminare i profili problematici emersi in sede di applicazione della legge 62 del 2011, così da impedire che i bambini varchino la soglia del carcere, valorizzando l’esperienza delle case-famiglia, strutture idonee che dovrebbero essere individuate di concerto tra il ministero della Giustizia e gli enti locali. La proposta di legge si prefigge l’obiettivo di vietare per sempre la custodia cautelare in carcere per detenute madri con prole di età inferiore ai 6 anni, e di attuare le detenzioni attenuate negli Icam solo in casi eccezionali, come extrema ratio. La legge di bilancio aveva anche stanziato un fondo di 4,5 milioni di euro da spendere in tre anni per sviluppare soluzioni alternative di detenzione, ma al momento nulla è cambiato.
L’amicizia che mi lega a Paolo Siani dai tempi di Un ragazzo normale, il romanzo con il quale ho tentato di omaggiare e ricordare il fratello Giancarlo, e le chiacchierate sul tema più volte avute con lui, mi hanno spinto a voler conoscere meglio questo mondo. Da padre, m’interessava soprattutto capire cosa significasse crescere lì dentro, come fosse possibile permettere che un bimbo innocente formasse la propria identità dietro quelle sbarre. Ho chiesto allora a un altro caro amico, Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti campani, di accompagnarmi a Lauro, e lì, in una calda giornata primaverile, ho conosciuto le mamme e i figli, e ho capito che avrei potuto provare a raccontare le loro storie. Raccontare la quotidianità di un penitenziario diverso, incastonato tra le montagne, nel quale le celle sono bivani arredati, con cucinino e televisione, ma pur sempre con le grate alle finestre; dove i bambini si riuniscono a giocare con le giostrine in cortile e le guardie penitenziarie, senza divisa e armi, osservano da lontano, in modo che i piccoli si sentano in un ambiente familiare, protetto, il più normale possibile.
Così, infatti, m’è parso quel carcere, un insolito ambiente familiare nel quale si svolge una vita che ha un suo ritmo, una vita altra dalla normalità di fuori, ma anche dalla quotidianità carceraria che immaginiamo di conoscere. Il primo impatto, in verità, è straniante, s’arriva all’Istituto lasciandosi cullare da una lunga strada che s’inerpica tra i monti, e sarà stata la primavera, o la bellezza che la terra d’Irpinia con il suo verde strabiliante impone, mi sembrava d’essere in gita. La prigione è una struttura bassa che si trova ai margini del paese; a prima vista la si scambia per un capannone, una piccola fabbrica come ce ne sono altre da quelle parti. Ti accorgi che è un carcere perché arrivano i secondini a chiederti i documenti, poi, compiuti i primi passi, ti trovi davanti un alto muro di un verde scolorito, come si usa negli ospedali, sormontato da telecamere e faretti. Dentro, però, le cose cambiano: ad accogliere il visitatore c’è una parete ricca di personaggi dei cartoon coloratissimi, e poi fiori, arcobaleni e uccelli disegnati in occasione d’una festa. Dietro una porta si sentivano grida divertite di bambini, così che per un attimo ho creduto d’essere nella scuola di mio figlio.
Grazie a Samuele Ciambriello, e alla collaborazione del direttore Paolo Pastena, persona garbata e disponibile, sono arrivato nel cuore del carcere, tra i corridoi che ospitano le celle, tutte aperte. I bambini si rincorrevano, qualche detenuta era dentro a far cose di casa, molte mi guardavano diffidenti dalla soglia dei loro «appartamenti», altre s’erano ammucchiate in cortile a fumare e a godersi il sole, come mamme ai giardinetti. Ho sbirciato in una cella, ed è stato come guardare in casa d’altri: c’era un posacenere colmo sul tavolo, in un angolo la cucina, ordinata; su un divanetto, pochi panni piegati.
In cortile mi si è avvicinato un bambino ben piazzato, di circa dieci anni (è raro trovarne di così grandi), dalla faccia paffuta e simpatica e dalla buona parlantina, che ha tenuto a mostrarmi la sua abilità nel salire sullo scivolo al contrario. Per l’intera ora che siamo stati lì non m’ha lasciato, aveva chiara l’urgenza di farsi un amico, anche se nulla mi ha chiesto di fuori. Alcune detenute tenevano a raccontarmi del loro caso e della pena che ancora avevano da scontare, altre facevano invece come se non ci fossi, abituate forse al viavai di visitatori, politici, medici. Qualcuna s’intratteneva a parlare del pranzo che aveva da cucinare, c’era chi si sforzava di essere partecipe e chi, al contrario, pareva apatica, se non ostile, come se la mia presenza rappresentasse un fastidio: il solito ficcanaso. I bambini erano tutti uguali nelle movenze e nell’apparente allegria, correvano senza sosta dallo scivolo alle altalene, si alternavano a trovare rifugio in una casetta colorata adagiata su un prato artificiale, ridevano e, almeno finché sono rimasto lì, sembravano non darsi pena alcuna. Tutti allegri, tranne Ninetta (nome di fantasia), una bimba rom di nemmeno cinque anni che ci guardava muta da dietro le sbarre della sua cella che affacciava sul cortile, costretta all’isolamento da quarantena perché la madre era stata fuori dal carcere per sottoporsi a cure chemioterapiche. Lo sguardo dolce e smarrito di Ninetta lo sento ancora addosso, e ancora mi convince che la sua storia, e quella degli altri bambini condannati alla prigionia da innocenti, merita d’essere conosciuta, seppure sotto forma di romanzo, com’è nella mia cifra.
Forse non posso davvero capire fino in fondo gli ultimi, io che senza merito alcuno ho avuto in sorte alla nascita una situazione comoda. Eppure, nonostante i privilegi, dell’infanzia mi porto dietro intatta la sensazione d’essere nulla, di valere solo per pochi. E m’è parso evidente che i bimbi di Lauro avessero a tenerli in vita solo l’amore materno, nient’altro. Questo ho voluto raccontare, prima ancora del carcere. Prima ancora della denuncia, ho provato a capire la verità, che è sempre cosa complessa, dalle mille sfaccettature. E la verità è che, in attesa di una legge che istituisca le Case-famiglia, nelle quali un domani le detenute con i loro figli possano condurre una vita quasi ordinaria, gli Icam al momento rappresentano, mi sembra, il male minore, poiché permettono alle madri di prendersi cura dei bambini, che altrimenti finirebbero chissà dove. Permettono che non si spezzi il filo che tiene in piedi quelle piccole e sfortunate esistenze.