Varie, 8 gennaio 2022
In Morte di Sidney Poitier
Maurizio Porro per il Corriere
Se oggi possiamo applaudire i divi del nuovo black power di Hollywood come Morgan Freeman, Will Smith, Denzel Washington, Eddie Murphy e Samuel Jackson, lo dobbiamo alla bravura e alla costanza di un attore come Sidney Poitier (e prima ancora di Harry Belafonte) morto ieri a 94 anni, alle Bahamas, lasciando sei figli di due mogli diverse. Ma lasciando soprattutto,in un’epoca in cui non era facile per gli afro americani entrare nelle nomination degli Oscar, una carriera colma di successi anche morali, come la medaglia presidenziale della libertà consegnatagli da Obama nel 2009. E i due premi Oscar, tra cui il primo vinto da un attore di colore per I gigli del campo di Ralph Nelson, melodramma in cui l’operaio Sidney aiuta le suore nella costruzione di una cappella, e poi quello alla carriera nel 2002. Una lunga carriera in cui ottenne anche ben 10 Golden Globe e riconoscimenti nei festival internazionali (2 Orsi d’argento a Berlino) oltre alla tangibile complicità del pubblico liberal degli anni 60 che ne fece l’eroe di Indovina chi viene a cena? di Kramer e La calda notte dell’ispettore Tibbs con Rod Steiger, di Norman Jewison, tutti non a caso nel ’67, prefazione di un’epoca movimentata.
Nato il 20 febbraio 1927 a Miami, in Florida, ma cittadino delle Bahamas, Poitier cresce a Cate Island, a 13 anni lascia la scuola per il lavoro e per aiutare la famiglia disagiata. A 16 anni si trasferisce a New York con tre dollari in tasca, fa il lavapiatti ad Harlem, dorme in un deposito di autobus e tenta senza successo l’audizione nell’American Negro Theatre. Studia recitazione, finché nel 49, mentendo e alzando la sua vera età, debutta in Uomo bianco tu vivrai di Mankiewicz, cui seguono due titoli bollenti come La parete di fango nel ’58 di Stanley Kramer e Il seme della violenza di Richard Brooks (che lo dirigerà anche in Qualcosa che vale), con Glenn Ford insegnante in una classe di teppisti all’avvento del rock, oltre al musical di Gershwin Porgy and Bess diretto da Otto Preminger. Praticamente è la generazione di registi impegnati nella causa antirazzista in quegli anni eredi di maccartismo ma forti delle riforme kennediane, compreso Martin Ritt (Paris blues) e La vita corre sul filo di Sidney Pollack in cui condivide con Anne Bancroft una telefonata salvavita.
Nel corso della sua storia ha contribuito ad abbattere le barriere del razzismo: con ampia facoltà di metafora nella Parete di fango in cui è un detenuto in fuga legato con una catena al bianco Tony Curtis in uno scontro di pregiudizi nelle paludi della Louisiana. Ma il capitolo fondamentale di questa lotta per i diritti civili fu il ruolo del medico John Prentice, fidanzato di una ragazza bianca della famiglia liberal di Spencer Tracy e l’Oscar Katharine Hepburn nella commedia progressista Indovina chi viene a cena?, ritratto di un giovane borghese di colore (questa è la novità, la conquista sociale) che lascia perfino un cent ai futuri suoceri per aver fatto una telefonata.
Poitier è ormai un divo riconosciuto e un altro film cult è nel ’67 La calda notte dell’ispettore Tibbs di Norman Jewison (con due sequel), quasi una serie poliziesca in cui Poitier è l’ispettore Virgil Tibbs al fianco di Rod Steiger, che vinse uno dei 5 Oscar. Negli anni 70, perde un poco l’aureola dell’eroe della giusta causa e si lancia senza gran successo nella regia, dirigendo anche una trilogia con l’amico Bill Cosby. Riappare sugli schermi dopo 10 anni, nel 1988, in Sulle tracce dell’assassino di Spottiswoode e poi nella banda criminale dei Signori della truffa di Robinson, con Redford, in cui si confondono i ruoli di buoni e cattivi, mentre l’ultima regia è Ghost dad del ‘91.
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Antonio Monda per la Repubblica
Era molto più che un magnifico attore, Sidney Poitier: era un simbolo, un’icona, un punto di riferimento, un gentiluomo all’antica e un uomo dalla bellezza regale, che incuteva in primo luogo soggezione con quel sorriso luminoso e irresistibile. Aveva conosciuto da vicino l’abominio del razzismo, scegliendo sin da giovane nella compostezza pacata, ma ferma, lo strumento per ottenere il rispetto ed esaltare la propria dignità. Ha trasformato la rabbia in energia positiva senza perdere mai la sua eleganza e la sua classe, e sono pochi gli attori che hanno ottenuto gli stessi straordinari risultati, sia sul piano artistico che su quello dei diritti civili, applicando sempre il principio del less is more.Marciò sorridendo a fianco di Marlon Brando il giorno in cui Martin Luther King commosse il mondo con il suo “I have a dream”, e la sua presenza silenziosa e implacabile fu l’immagine più celebrata quel giorno. Per comprendere la portata del suo carisma, basti ricordare che il giovane afro-americano protagonista di Sei gradi di separazione conquista i favori di una coppia di ricchi signori bianchi dell’Upper East Side spacciandosi per suo figlio. Quando venne onorato con il premio alla carriera dalla Film Society del Lincoln Center, venne accolto da una interminabile standing ovation e recitò Invictus.Sembrava che William Ernest Henley avesse scritto per lui quei versi: ho visto molti occhi bagnarsi di lacrime quando ha recitato “my head is bloody but unbowed / il mio capo è sanguinante, ma indomito”, e “the menace of the years finds and shall find me unafraid. / la minaccia degli anni mi trova e mi troverà senza paura”. E concluse la poesia dando a ognuno dei presenti l’idea che stesse fissandolo negli occhi: “I am the master of my fate, I am the captain of my soul. / Io sono il padrone del mio destino, il capitano della mia anima”.Era il più giovane dei sette figli di Reginald ed Evelyn Poitier, una coppia di contadini delle Bahamas che lo fecero nascere a Miami, dove si trasferì quando aveva quindici anni: lavorò come lavapiatti in ristoranti di secondo ordine imparando di notte a leggere. Era talmente povero da dormire nelle stazioni degli autobus, ma nonostante le ingiustizie e le aberrazioni credeva nella promessa americana, e mentì sulla propria età pur di arruolarsi in guerra. Subito dopo entrò nell’American Negro Theater, e diede nuovamente prova di formidabile abnegazione, dedicando gran parte del tempo a liberarsi dell’accento dei Caraibi.Fu Joseph Manckiewicz a offrirgli la prima opportunità cinematografica in Uomo bianco tu vivrai, a cui fecero seguito Il seme della violenza e La parete di fango. Dimostrò di avere la star quality, e la Hollywood liberal si innamorò di questo attore in grado di impadronirsi di ogni scena alla quale partecipava. Lui tuttavia continuò a recitare anche in teatro, trionfando a Broadway in Un grappolo di sole, rivoluzionario per l’epoca, se si pensa che il pubblico era quasi esclusivamente bianco. La versione cinematografica ne consacrò lo status da star, e con il successivo I gigli del campo vinse l’Oscar come miglior attore protagonista, il primo per un attore di colore, se si eccettua quello di Hattie MacDonald come non protagonista per Via col vento, in un ruolo però di donna al servizio di una famiglia del sud schiavista.Il suo trionfo rappresentò una ennesima rivoluzione, a cui ne fece seguito un’altra: il nome di Poitier era diventato sufficiente per produrre un film, e ne sono prova le pellicole dove cominciò a essere protagonista assoluto, o quelle come Paris Blues, in cui duetta con star quali Paul Newman, per non parlare dei suoi due film più celebri: Indovina chi viene a cena? dove interpreta il fidanzato di colore che conquista una famiglia liberal, e La calda notte dell’ispettore Tibbs, dove è un poliziotto di Filadelfia che conduce un’indagine nel profondo sud insieme a un collega razzista.È perfetto in questi ruoli, ma lui era consapevole di rappresentare un’immagine idealizzata dell’uomo di colore, senza macchia e senza paura e privata di ogni elemento erotico. Fu il primo a cercare di avere parti più variegate, ma c’è voluta un’altra generazione perché Hollywood consentisse questa conquista, ma senza di lui non sarebbe stata possibile. In quegli stessi anni rifiutò di interpretare Otello, e cominciò a dirigere film di buona fattura, alcuni dei quali coronati dal successo, come Stir Crazy. Negli anni novanta entrò a far parte del Board della Walt Disney, e quindi accettò di essere ambasciatore delle Bahamas in Giappone e poi presso l’Unesco: sapeva di essere diventato un monumento, e quando nel 2002 Hollywood lo onorò con il premio alla carriera considerò una vittoria personale il fatto che lo stesso anno fossero premiati sia Denzel Washinton che Halle Berry.Da allora ha scritto tre memoir, ma in quello a cui tiene maggiormente, La misura di un uomo, scrive: “Ho imparato a trasformare la mia rabbia in qualcosa di positivo, altrimenti mi avrebbe distrutto”.©RIPRODUZIONE RISERVATAL’attore aveva 94 anniPrimo afroamericano a vincere un OscarDa Martin Luther King al grande successo tra origini modeste e bellezza regale Aveva conosciuto il razzismo e scelto nella compostezza pacata ma ferma lo strumento per ottenere il rispetto ed esaltare la dignità
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Fulvia Caprara per La StampaIl primo ricordo è un po’ come la prima impressione. Svela la vera natura degli individui. Nel caso di Sidney Poitier, scomparso ieri a 94 anni, l’equazione si ripete. Basta pensare alla sua interpretazione più celebre, il giovane medico John, figlio di un postino, in procinto di chiedere la mano di Joanna (Katherine Houghton), figlia di un ricco editore (Spencer Tracy), nel film di Stanley Kramer Indovina chi viene a cena, per ritrovare in un attimo il senso di una vita e una carriera. L’autorevolezza pacata, frutto anche della struttura fisica imponente, il modo conciliante di portare avanti la battaglia per i diritti civili, il tono più orgoglioso che protestatario, la coerenza esercitata in un lungo cammino, attraverso diverse e tumultuose fasi politico-sociali, hanno caratterizzato la personalità di uno dei rappresentanti più significativi della storia del cinema internazionale. Molto prima delle polemiche #Oscarsowhite, Poitier aveva affermato, con le sue interpretazioni, principi antirazzisti e istanze di parità: «Sono arrivato ad Hollywood a 22 anni – aveva detto nel 2002, nel discorso di ringraziamento per l’Oscar alla carriera -, in un’epoca molto diversa da oggi. Un tempo in cui le probabilità che io potessi essere qui, stasera, 53 anni dopo, non sarebbero mai state a mio favore. Allora non era stata tracciata alcuna via per raggiungere i luoghi dove speravo di arrivare. Nessun percorso visibile che potessi seguire. Nessuna consuetudine a cui accordarmi. Eppure sono qui stasera, al termine di un viaggio che, nel 1949, sarebbe stato considerato impossibile».
Quelle parole, insieme alla medaglia della libertà, ricevuta, nel 2009, dalle mani dell’allora presidente Usa Barack Obama, suggellavano lo scopo di un’esistenza, mettendo a tacere per sempre le critiche dell’ala più radicale della comunità nera che, negli Anni ‘60, aveva attaccato l’atteggiamento di Poitier, a partire proprio dal personaggio di Indovina chi viene a cena?, imputandogli eccessiva moderazione e scarsa furia conflittuale. La replica era arrivata con il libro di memorie La misura di un uomo: «C’è un posto per le persone che sono arrabbiate e provocatorie, e a volte servono a uno scopo, ma quello non è mai stato il mio ruolo». Più importante era stato l’esempio concreto, il percorso seguito fin dalla nascita a Miami, l’infanzia alle Bahamas, in condizioni di estrema povertà, la famiglia numerosa di contadini, la fatica per diventare altro. Guadagnare l’Oscar per I gigli del campo, regia di Ralph Nelson, dopo essere stato soldato dell’esercito americano e dopo aver debuttato a Broadway nel ‘46, in una Lysistrata interpretata da soli attori di colore, era stato il frutto di un impegno lungo e complesso, della scelta di diventare simbolo di integrazione attraverso un modello di recitazione sobria, elegante, piena di dignità. Fin dall’avvio della carriera, Poitier si è misurato con grandi interpreti, nella Parete di fango era un fuggiasco incatenato insieme a Tony Curtis, in Paris blues di Martin Ritt era jazzista in coppia con Paul Newman, nella Parigi degli Anni 60. Gli assoli non furono da meno, a iniziare dalla Calda notte dell’ispettore Tibbs, di Norman Jewison, in cui Poitier era un ispettore inizialmente scambiato per un malvivente, arrestato dallo sceriffo della cittadina di Sparta, nel profondo Sud degli Stati Uniti, in grado di mantenere la calma in un clima di soffocante razzismo. La battuta in cui, rispondendo allo sceriffo interpretato da Rod Steiger, chiariva la propria identità dicendo «Mi chiamano Mister Tibbs» divenne simbolo di lotta per l’uguaglianza, in un momento in cui la famiglia di Poitier era stata oggetto di minacce e intimidazioni razziste: «Portavo sulle mie spalle – aveva detto una volta l’attore – le speranze e le aspirazioni di un intero popolo. Non ho nessun controllo sui contenuti delle storie, né posso sfruttare la creatività. L’unica cosa che posso fare è rifiutare un ruolo, e lo faccio spesso».
Le esperienze di regia e di produzione, i libri (This life e Life Beyond Measure: Letters to My Great-Granddaughter oltre a The Measure of a Man) avevano riempito il tempo di una pausa dalla recitazione, fino all’88, quando Poitier, sposato due volte e padre di sei figlie, riappare nel film di Roger Spottiswoode Sulle tracce dell’assassino e in Little Nikita in cui recita accanto a River Phoenix. La notizia della scomparsa è stata accolta da un coro di rimpianto addolorato cui si sono uniti Dionne Warwick e Oprah Winfrey, Morgan Freeman a Whoopi Goldberg, Joseph Gordon Levitt a Viola Davis che scrive in un tweet: «Non ci sono parole per descrivere quanto il tuo lavoro abbia radicalmente cambiato la mia vita. La dignità, la forza, la pura elettricità che hai portato nei tuoi ruoli ci hanno fatto capire che noi, black people, siamo importanti». L’ex-presidente Obama ha scelto di ricordare l’uso che Poitier ha fatto del cinema, quella «capacità di avvicinare le persone» che, in sintesi, è stata l’arma principale con cui Poitier aveva scelto di combattere. Quella stessa fermezza educata con cui il suo personaggio più celebre vinceva imbarazzi e pregiudizi di una cena pochi anni prima inimmaginabile. —
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Pedro Armocida per il Giornale
Ci sarebbe mai potuta essere l’elezione di un presidente afroamericano come Barack Obama senza la figura di Sidney Poitier, morto ieri a 94 anni? La domanda non è né oziosa né provocatoria perché c’è un episodio della sua vita, poco conosciuto, che lo ricollega direttamente a Obama, il quale nel 2009 gli conferì la Medal of Freedom, la più importante onorificenza civile. La fama e il successo che Poitier, dal portamento signorile, dalla recitazione sobria, dallo sguardo penetrante e ipnotico, ha conquistato negli anni ’60 lo ha portato, insieme ad altre due star di colore come Harry Belafonte e Jackie Robinson, a finanziare l’Associazione degli studenti afroamericani con borse di studio per gli universitari kenioti. Tra questi c’era un certo Barack Obama che avrebbe sposato una donna americana e avrebbe avuto un figlio con lo stesso nome, futuro presidente degli Stati Uniti.
Curiosamente proprio come si sente dire nel film forse più famoso di Poitier, Indovina chi viene a cena?, quando il padre di Joana, interpretato da Spencer Tracy, chiede appunto a Prentice/Sidney Poitier se abbia pensato alle conseguenze di avere figli come coppia mista. «Sento che ognuno dei nostri figli sarà presidente degli Stati Uniti», è la sua risposta.
Di umili origini, Poitier trascorre i primi anni nelle Bahamas, Paese d’origine dei suoi genitori, in uno stato di vera e propria povertà. A 15 anni raggiunge il fratello a Miami, prima di trasferirsi nel 1945 a New York sbarcando il lunario con lavoretti di tutti i tipi, grazie a cui entra a far parte dell’American Negro Theatre di Harlem per poi arrivare a Broadway con Lysistrata. Notato dai critici, esordisce al cinema nel 1950 in Uomo bianco tu vivrai! di Joseph L. Mankiewicz in cui interpreta un chirurgo che si trova a curare due fratelli banditi feriti ma non riesce a salvare quello più grave ed è mercé del superstite, razzista. Un tema che lo inseguirà praticamente in tutti i ruoli più importanti della sua carriera.
Gli anni ’50 sono quelli della sua conferma come grande attore, dopo Il seme della violenza di Richard Brooks – curioso come i titolisti italiani continueranno su questa strada con Il seme dell’odio, La scuola dell’odio, La scuola della violenza... – nel 1958 ottiene già la sua prima nomination per La parete di fango di Stanley Kramer, in cui interpreta uno dei due fuggiaschi incatenati, l’altro è Tony Curtis. Come l’anno prima, nel solido film di Martin Ritt Nel fango della periferia con un’amicizia tra un bianco (John Cassavetes) e un nero, anche qui c’è un’utopica soluzione al razzismo attraverso la solidarietà reciproca.
Sempre di coppia mista, in questo caso jazzistica, si parla in Paris blues (1961) di Martin Ritt con Paul Newman. L’anno dopo in La scuola dell’odio di Hubert Cornfield interpreta uno psichiatra militare alle prese con un paziente antisemita, razzista e simpatizzante per il nazismo. Nel 1964 è il primo afroamericano a ricevere l’Oscar come migliore attore – in lacrime dalle mani di Anne Bancroft – per la dolce commedia I gigli del campo di Ralph Nelson. Ma saranno tre film di grandissimo successo, tutti a cavallo del 1967, a trasformarlo in un’icona mondiale, simbolo di riscatto e integrazione. Sono La scuola della violenza di James Clavell, La calda notte dell’ispettore Tibbs di Norman Jewison e Indovina chi viene a cena? di Stanley Kramer in cui Poitier, negli ultimi due doppiato da Pino Locchi, diventa «il simbolo borghese che esaudisce i desideri di una razza», come è stato scritto nell’interessante raccolta di saggi Poitier Revisited del 2014, per i vestiti sempre eleganti, immancabilmente ben rasato, dignitoso e aggraziato, mai pericolosamente provocatorio né tanto meno offensivo nella sua deferenza, maschile ma stranamente quasi asessuato. È su queste basi, mai conflittuali sul piano del discorso razziale, che si instaura il forte patto, il legame indissolubile, il riconoscimento, tra Poitier e il suo pubblico.
L’attore, ormai artisticamente maturo, nel 1972 esordisce alla regia con il western Non predicare spara! seguito dal melodramma Grazie per quel caldo dicembre e dalle commedie Nessuno ci può fermare e Hanky Panky Fuga per due a cavallo degli anni ’80, quando inizia a diradare la sua presenza sul grande schermo mentre, negli anni Novanta, già settantenne, non sfigura accanto a Bruce Willis e Richard Gere in The Jackal di Michael Caton-Jones.
Nel 2002 gli fu conferito l’Oscar alla carriera presentato da Denzel Washington che ne ha preso un po’ l’eredità. Non solo per i due Oscar vinti.
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Gloria Satta per il Messaggero
Il cinema perde una delle ultime grandi star di Hollywood: Sidney Poitier è morto a Los Angeles, aveva 94 anni. Alto, elegante, è stato il primo attore afroamericano a conquistare l’Oscar come migliore protagonista (nel 1964, per I Gigli del Campo). E dopo la scomparsa di Kirk Douglas (2020) il più anziano vincitore degli Academy ancora in vita. Venne anche premiato nel 2002 con una statuetta alla carriera «per aver rappresentato l’industria del cinema con dignità, stile e intelligenza» e fu protagonista di film indimenticabili come Indovina chi viene a cena?, pietra miliare cinematografica nella lotta contro il razzismo, e La calda notte dell’Ispettore Tibbs. Nella sua lunga carriera, iniziata negli anni Quaranta, Poitier vinse anche 10 Golden Globe e altri riconoscimenti. Attivista dei diritti civili, nel 2009 venne insignito da Barack Obama della Medaglia della Libertà, la più alta onorificenza civile americana («Incarnava la dignità e la grazia», ha scritto ieri su Twitter l’ex presidente Usa). Originario delle Bahamas, dal 1997 al 2007 fu ambasciatore dell’arcipelago in Giappone.
APRIPISTAAl di là del talento, Poitier ha aperto la strada agli attori di colore che in un sessantennio sono passati dall’ombra della discriminazione alla ribalta del successo. Cambiando radicalmente il volto di Hollywood, ieri troppo bianco e discriminatorio, oggi inclusivo. Insomma, senza il grande attore non sarebbero entrati nello star system personaggi amati e potenti come Denzel Washington, Spike Lee, Eddie Murphy (che prepara per Netflix un remake di Indovina chi viene a cena?), Whoopi Goldberg (che ieri ha twittato «ci hai mostrato come raggiungere le stelle»), Will Smith, Samuel L. Jackson, Viola Davis, Halle Berry, René-Jean Page lanciato dalla serie Bridgerton e ora tra i papabili per il ruolo di 007. Poitier nasce a Miami il 20 febbraio 1927 da una famiglia di piccoli agricoltori delle Bahamas. A pochi mesi, torna nella terra natìa rimanendo a Nassau fino a 10 anni. A 17 sbarca a New York dove campa di espedienti. Si arruola nell’esercito, ottiene il congedo, fa l’inserviente all’American Negro Theater dove scambia il compenso con le lezioni di recitazione. Fa Lisistrata a Broadway, poi arrivano il primo film (Uomo bianco tu vivrai di Mankiewicz, 1949) e nel 1959 la nomination all’Oscar per La parete di fango. Sidney diventa un sex symbol ma non ha il diritto di baciare le partner bianche: nel 1964, la censura oscura il bacio che gli dà Anne Bancroft consegnandogli l’Academy.
DIALOGOMa nel 1967 l’attore gira tre grandi film: il poliziesco La calda notte dell’ispettore Tibbs di Norman Jewison, La scuola della violenza di James Clavell, Indovina chi viene a cena? di Stanley Kramer in cui interpreta un medico nero a tu per tu con il pregiudizio strisciante dei futuri suoceri liberal Spencer Tracy e Katharine Hepburn. «L’industria non era ancora pronta per elevare più di una personalità dalle minoranze al rango di star», scriveva Poitier nell’autobiografia This Life, 1980, «io assecondavo le speranze di un intero popolo. Non avevo alcun controllo sul contenuto dei film... ma potevo rifiutare un ruolo, cosa che ho fatto molte volte». Oggi i diritti degli afroamericani del cinema vengono difesi dalla veemenza di maestri come Spike Lee e dalla potenza virale dei social (si pensi alla campagna contro l’Oscar «troppo bianco»). Poitier combatteva il razzismo credendo nel dialogo tanto che qualcuno lo accusò di non essere abbastanza radicale. E lui tornò a vivere per un periodo alle Bahamas. L’attore, che ha diretto anche una decina di film, lascia 6 figli e la seconda moglie Joanna Shimkus. E sulla sua vita è in preparazione uno spettacolo a Broadway: Sidney!, prodotto dalla figlia Anika Poitier.
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Federico Pontiggia per il FattoAddio a Sidney Poitier. Il primo attore afroamericano, e il primo delle Bahamas, a vincere l’Oscar, se n’è andato a 94 anni. Lascia la propria immagine, bellissima, in opere di successo quali Indovina chi viene a cena di Stanley Kramer e La calda notte dell’Ispettore Tibbs di Norman Jewison, entrambe del 1967, e una dimensione irriducibile al puro cinema, di cui fu peraltro una delle massime star: pioniere hollywoodiano, insieme ad Harry Belafonte, per i neri, icona progressista, attivista antirazzista, è stato, ed è, un simbolo. La sua morte è stata annunciata ieri dal ministro degli Esteri delle Bahamas, Fred Mitchell, con il primo ministro Chester Cooper che saluta “un tesoro nazionale”. Nato a Miami il 20 febbraio 1927 – i genitori bahamensi erano in Florida per vendere pomodori –, crebbe alle Bahamas, allora colonia britannica, in povertà, tornando negli Usa a 15 anni, dove dopo alcuni umili lavoretti servì brevemente nell’esercito.
La vocazione attoriale ha un apprendistato, altisonante: l’American Negro Theater di Harlem. Sidney non è ammesso, ma non molla: lavora duro, anche all’accento, finché non viene accolto, complice l’indisponibilità di Belafonte.
Broadway è dietro l’angolo, Poitier si fa notare e il cinema è il passaggio successivo: il primo film è sintomatico, seminale, sia nel titolo originale, No Way Out, che in quello italiano, Uomo bianco, tu vivrai!. 1950, sceneggiatura e regia del glorioso Joseph L. Mankiewicz, Poitier vi guadagna 7.500 dollari e un’ipoteca sul futuro: chirurgo nero chiamato a curare due fratelli bianchi banditi, si troverà alla mercé del superstite, fanatico razzista (Richard Widmark), impostando in termini di sensibilità personale e riconoscibilità pubblica l’identikit del nero giudizioso, valente e, di più, prevalente. Non si tratta di politica, sebbene l’apartheid sotteso al successivo Piangi mio amato paese ne indirizzerà l’attivismo, ma di virtù attoriale spesa nella necessità, ovvero nella penuria di ruoli per interpreti afrodiscendenti: Poitier è cartina al tornasole, exemplum in fieri, sopra tutto, più bravo degli altri, complice un fisico e un volto che non si dimenticano. Ne è perfettamente consapevole: “Ho fatto film quando l’unico altro nero nel lotto era il lustrascarpe, come alla Metro-Goldwyn-Meyer”, dichiarò a Newsweek nel 1988. E che non fosse il nero buono per tutte le stagioni, ma solo per quelle riottose lo dice Il seme della violenza (Blackboard Jungle, 1955) di Richard Brooks, dove incarna uno studente ribelle. Con Brooks due anni dopo fa Qualcosa che vale, con Kramer La parete di fango (1958), con Ritt e Walsh nel 1957 rispettivamente Nel fango delle periferia e La banda degli angeli: il fango ricorre, ma il minimo comune denominatore è la questione razziale, e la silhouette di Poitier evoca la sineddoche.
La statuetta sta per arrivare, ma le spalle del gigante su cui prenderanno posto i Denzel Washington, i Morgan Freeman, i Samuel L. Jackson, i Will Smith, i Jamie Foxx, i Maershala Ali, o il compianto Black Panther Chadwick Boseman, si vedono già, irrobustite da Porgy and Bess di Otto Preminger e, ambientato nella Chicago segregazionista, Un grappolo di sole. 1964, l’Academy Award, quale attore protagonista, per I gigli del campo di Ralph Nelson: un premio alla carriera o, meglio, all’insieme dell’opera fin lì, giacché il film è modesto, però la trama insolita, con il nostro, operaio, che aiuta un gruppo di suore tedesche a costruire una chiesa nel deserto dell’Arizona. Una pia parentesi, il mondo là fuori è brutto, la censura morde, ancora una volta: Incontro al Central Park, il bacio tra Poitier e la bianca coprotagonista Elizabeth Hartman è stralciato a beneficio degli spettatori, razzisti, del Sud.
Il 1967 lo vede sugli scudi: L’ispettore Tibbs, sebbene agli Oscar vincano tutti – dal film a Rod Steiger – tranne lui, nemmeno nominato, e Indovina chi viene a cena, con rinnovato voltaggio interrazziale. Mentre l’America cavalca i diritti civili, Sidney scarta e passa alla regia, trovando in Bill Cobsy e, ancor più, Gene Wilder il proprio beniamino davanti alla macchina da presa: il carcerario Nessuno ci può fermare (1980), con lo stesso Wilder e Richard Pryor, è il vertice. Negli anni Ottanta e Novanta il progressivo ritiro dal set, sei i figli da due mogli e 23 i parenti scomparsi durante l’uragano Dorian del 2019, quindi il Cavalierato, l’esperienza da ambasciatore delle Bahamas all’Unesco e in Giappone, le stimmate stabili dell’antesignano – il secondo attore a vincere una statuetta, Louis Gossett Jr. non protagonista per Ufficiale e gentiluomo, arrivò solo nel 1983, 38 anni dopo… – e le mostrine dell’Academy Award onorario nel 2002.
Dopo la morte di Kirk Douglas era il più anziano premio Oscar vivente, nel 2009 aveva ricevuto da Obama la Medaglia Presidenziale della Libertà, ora gli spetta il cordoglio di Hollywood, costretta dopo Peter Bogdanovich a congedare un altro pezzo da novanta in questo scorcio di 2022. Trailblazer, lo piangono, e pioniere Sidney Poitier era.