Corriere della Sera, 8 gennaio 2022
L’epistolario di Verga
C’è un primo romanzo familiare di Giovanni Verga, intitolato I Malavoglia, e ce n’è un secondo, che è il romanzo parallelo del Verga privato. Tra i due romanzi, quello pubblicato nel 1881 da Treves, e quello leggibile nelle lettere inviate alla madre, ai fratelli, agli amici e alle donne amate, c’è una relazione stretta. Al punto che l’epistolario può essere interpretato come una sorta di nucleo genetico o almeno una ideale preistoria dell’opera. Giuseppe Savoca, in Verga cristiano. Dal privato al vero (Olschki), parla di «antefatti privati e segreti che disegnano una involontaria e preventiva mappa tematica e “sentimentale” dei Malavoglia». Nel centenario della morte dello scrittore, che cadrà il 27 gennaio, quello di Savoca è un preciso punto di vista cristiano, che si fa largo tra le interpretazioni più note: dalla fede in una generica «religione della famiglia» alla riproduzione «veristica» (e distaccata) del culto popolare.
Nella sua lunga vita di studioso, Savoca ha spaziato dalla poesia alla prosa, da Petrarca a Pirandello, al Novecento poetico di Gozzano e di Montale, sia come critico, sia come filologo (sua l’edizione critica del Canzoniere di Petrarca), sia come lessicografo: senza dimenticare che è stato un pioniere delle concordanze (i repertori alfabetici delle parole utilizzate in una singola opera o nella produzione complessiva di un autore) ed è un’autorità nella ricerca informatica applicata al testo letterario. Curatore, con Antonio Di Silvestro, delle Lettere alla famiglia, ora Savoca, partendo appunto dalle lettere, approfondisce la dimensione cristiana di Verga: tutt’altro che materialista e anzi (parola dell’amico Federico De Roberto) «sempre credente». Savoca indaga a suo modo, cioè anche segnalando la ricorrenza di formule e di vocaboli relativi al linguaggio religioso, a partire dal motivo molteplice del peccato.
Intanto, nell’Edizione nazionale esce, a cura di Rosy Cupo, l’edizione critica di Dal tuo al mio (Interlinea): il romanzo che Verga concepì, nel 1904, dopo il duplice «fiasco» della rappresentazione della commedia omonima. L’intenzione era quella di rimediare al «difetto di immaginazione» e al «pregiudizio» negativo responsabili dell’insuccesso, impegnandosi a riscrivere l’opera in forma narrativa. Anche da questo intreccio familiare (un matrimonio mandato a monte in extremis in un ambiente di zolfatari) emergono frammenti di vita vissuta al di là della questione del pessimismo verghiano a proposito dell’«inarrestabile “marea” contro cui nulla può l’uomo».
E rieccoci alla «religione della famiglia», la formula con cui Luigi Russo definiva la prospettiva di Verga. «Russo – dice Savoca – è stato il primo, nel 1919, a proporre un’interpretazione organica dello scrittore, lui vivente, e ad avere valorizzato l’espressione di “religione della famiglia” che in Verga appare una sola volta. Ne è venuto fuori una sorta di canone critico. A mio giudizio Russo, nel bel ritratto che fece di padron ‘Ntoni, confinato nella “religione della casa e della famiglia”, ignorò l’aspetto di coerente cristianesimo popolare del personaggio e, più in generale, non si preoccupò di definire storicamente il significato stesso da attribuire al concetto di religione, al di là del legame tra i protagonisti del romanzo. In termini espliciti si può dire che egli non si pose il quesito se ci fosse una “religione nella famiglia” dei Toscano detti Malavoglia. Il cambiamento di prospettiva sta in questa sostituzione di “nella” a “della”».
Questo che cosa comporta?
«La religione non è oggetto primario della narrazione di Verga, ma è tuttavia un elemento costitutivo del mondo rappresentato. Verso questa componente Verga non esprime giudizi e non si pone in attitudine di distacco, come non si astiene dal rappresentare le deformazioni di quelle che sono le manifestazioni popolari, intrise di superstizione, o i tradimenti della vera fede cristiana, anche se perpetrati dai ministri del culto».
Che rapporto c’è tra le lettere familiari e l’opera narrativa di Verga?
«Il Verga privato che cominciamo a conoscere meglio sulla base delle lettere ai familiari è il vero protagonista e autore di un secondo romanzo familiare, che è da esplorare nelle sue tematiche ma anche nei suoi aspetti letterari e linguistici. È significativo, per esempio, il dato, solo in apparenza casuale, di una composizione simile delle famiglie Verga e Toscano. In effetti, i fratelli Verga erano cinque (tre maschi e due ragazze) come, nello stesso rapporto di genere, i figli di Bastianazzo e di Maruzza la Longa. Il padre di Verga muore nel 1863, cioè prima della storia “pubblica” di Giovanni, così come Bastianazzo, la cui morte è collocata nell’antefatto delle vicende del romanzo, che prendono avvio da quella disgrazia e dai debiti conseguenti. Anche la scomparsa del padre di Verga lasciò la famiglia in “estreme ristrettezze”».
Altri temi autobiografici che dalle lettere passano nel romanzo?
«Nelle lettere si rintracciano diffusamente tutti i temi dei Malavoglia, ad esempio la lotta con i nemici per il denaro, gli affari, il lavoro, accanto ai motivi del partire e del tornare a casa. Nelle lettere si esplicitano poi chiaramente i termini della religione della e nella famiglia con l’affermazione netta della fede cristiana nella comunione fra vivi e morti: un sentimento vivissimo in Maruzza come in padron ’Ntoni».
Colpisce la centralità della figura materna, che ricorda il rapporto viscerale tra un altro siciliano, Federico De Roberto, e la sua genitrice.
«Il rapporto di De Roberto con la madre donna Marianna è segnato da una forte interdipendenza edipica, che vede di fronte una donna padrona e un figlio che (pur definendola “un bene che mi soffoca e mi strozza”) sacrifica a lei la sua libertà e i suoi amori (come quello per Renata Valle), accettando senza batter ciglio la gelosia materna, e tornando a comando per farle compagnia d’inverno. Anche Verga dichiara nelle lettere di essere pronto a rientrare a un minimo cenno di richiamo della madre, convinto di potere mandare letteralmente a monte tutto, anche la sua carriera di scrittore. Ma la madre non lo richiamò mai indietro, accettandone sempre il periodico allontanamento dovuto a ragioni di lavoro».
È comunque una relazione molto forte presente anche nei «Malavoglia».
«Per lo scrittore e per l’uomo quello della benedizione materna (simile alla benedizione di Dio) è uno dei nuclei invarianti di tutto il suo mondo».
L’idea di religione da lei avanzata cambia il rapporto di Verga con Manzoni?
«Direi che Verga è, a suo modo, un manzoniano ma indipendentemente dalla religione, se non fosse per la citazione nascosta (e forse polemica) che è implicita nel nome Provvidenza della barca dei Malavoglia. Sappiamo da una lettera del 1865 che Verga avrebbe voluto scrivere un “romanzo storico”, ma non lo fece. In effetti egli ammirò sempre Manzoni, senza dipenderne mai, e distaccandosi teoricamente dall’onniscienza narrativa manzoniana. Sue tracce si trovano ad esempio nell’addio finale di ’Ntoni ai familiari e ad Aci Trezza. Vorrei aggiungere però che Verga ha in comune con Manzoni qualcosa di più profondo, e che credo consista nella volontà che direi cristiana di vedere la storia dalla parte dei più deboli».
Accostandosi a Verga, è inevitabile dialogare con i molti suoi illustri lettori: da Capuana a Pirandello, da Tozzi a De Sanctis e Croce, da Sciascia a Bufalino… C’è un lettore più affidabile di altri?
«Potrei rispondere dicendo, con Sciascia, che molte migliaia delle pagine scritte su Verga sono inutili. E questo forse è più vero oggi che in passato. Ritengo che i giudizi di alcuni dei critici contemporanei allo scrittore siano tuttora attuali, e abbiano costituito la base di partenza per buona parte della critica accademica italiana, che continua a discorrere di Verga e del Verismo, magari senza ricordare che i primi a tentare di scrollarsi di dosso la qualifica di veristi furono Verga e Capuana, con De Roberto al seguito. In questo senso, tra i lettori più illustri di Verga inserirei Giacomo Debenedetti, che alluse più volte alla forte dimensione autobiografica, collocando le opere verghiane al di là e al di sopra del naturalismo, e affermando l’inconsistenza della categoria di Verismo».
Al di là dei noiosissimi -ismi, si può proporre nelle scuole un’attualità di Verga senza forzare troppo le cose?
«Sorretto in profondo da quella che Pirandello definiva una “visione totale”, Verga è attuale come i grandi classici: e come loro, può essere presente nella scuola a patto però che trovi insegnanti capaci di farlo amare senza caricarne la lettura di ideologie e teorie. Sulla sua attualità, mi permetto di citare la novella L’ultima giornata, dove si parla di un immigrato a Milano che, attratto dalla fama di una città accogliente, dopo avere fatto “un po’ di tutti i mestieri”, resta invalido e disoccupato per un infortunio capitatogli in un lavoro saltuario, e quindi diventa uno “scarto” sociale. Cerca di resistere, fa la fame e infine “stanco di cercare il pane si coricò sulle rotaie della funivia”, suicidandosi».