Corriere della Sera, 8 gennaio 2022
Raskin, il deputato che sfida Trump
Il 6 gennaio dell’anno scorso, tra i parlamentari barricati al Congresso, spaventati per la propria incolumità e per quella della democrazia americana, c’era un deputato che aveva appena vissuto la più grande tragedia che possa toccare a un padre: seppellire il proprio figlio. Tommy Raskin, 25 anni, un ragazzo brillante, impegnato politicamente, studente della Harvard Law School, da tempo soffriva di depressione, e il Covid aveva esacerbato la sua condizione. Il papà Jamie, rappresentante democratico del Maryland ed ex professore di diritto costituzionale, l’aveva trovato morto nel suo letto l’ultima mattina dell’anno.
Accompagnato da una delle altre due figlie, la 23enne Tabitha, si era però diretto lo stesso a Washington, poche ore dopo il funerale, per fare il suo dovere e certificare la vittoria elettorale di Joe Biden alle presidenziali.
Quel giorno, ha raccontato, le urla dei barbari alle porte si mischiavano nella sua testa ai suoni della cerimonia di addio a Tommy, alle preghiere, al rumore della terra sul feretro. Ma né il dolore né la paura l’hanno fermato: su incarico di Nancy Pelosi è stato il «manager» del secondo impeachment contro Trump, e ora è tra i membri più in vista della commissione che indaga sull’assalto al Congresso. Un uomo che «incarna la tragedia e la resistenza del nostro tempo», ha scritto il direttore del New Yorker David Remnick.
Pochi giorni fa è uscito negli Stati Uniti Unthinkable: trauma, truth, and the trials of American democracy, che Raskin racconta di aver scritto in cinque mesi, di notte, per non lasciarsi andare. «È stato terapeutico – ha raccontato a Remnick – dormo meglio adesso… non annego nel dolore e nell’agonia come prima. E in gran parte è perché stiamo cercando di onorare lo spirito e i desideri espressi da Tommy nel suo biglietto d’addio: “Prendetevi cura l’uno dell’altro”… una roadmap per il resto della mia vita».
Ma se scrivere è stato catartico, per certi versi Raskin è più pessimista di un anno fa. Non sa, ammette, se anche i pochi senatori repubblicani (7) che votarono per incriminare Trump lo scorso febbraio, oggi farebbero lo stesso. Al New York Times ha raccontato di aver comprato libri sui culti e sul «deprogramming», il processo per far rinsavire le vittime di lavaggio del cervello: ormai non trova di meglio per capire i colleghi del Grand Old Party. «Negare il fatto che Joe Biden abbia vinto le elezioni del 2020 è il principio organizzativo di quel partito».
Una realtà «sconvolgente e terrificante» che aggiunge urgenza al lavoro della sua commissione: «Il 6 gennaio non è stato l’atto finale, ma forse il prologo di una battaglia titanica tra la democrazia e l’autoritarismo violento in America». Il deputato Jamie, con la sua preparazione, la sua umanità e quel sorriso ironico che ha resistito al lutto, è per molti già il simbolo dell’esercito dei buoni, nel nome di Tommy.