la Repubblica, 8 gennaio 2022
In morte di Vitaliano Trevisan
Per Vitaliano Trevisan il dolore era come un attrezzo dei molti mestieri che aveva fatto nella vita, un punteruolo, un cacciavite, una biro. Era il sottofondo nello sguardo chiaro dei suoi incredibili occhi celesti, era lo stagno d’acqua ferma dove si tuffavano i suoi torrenti e dove la mattina gli piaceva andare, per guardare le trote mentre saltano. Ieri lo hanno trovato morto in casa, lo hanno trovato i carabinieri, solo come era sempre. Faranno l’autopsia, ma già si sa quello che si deve sapere. Aveva 61 anni, e un mondo di parole nel silenzio.
L’ultimo suo grido lo aveva consegnato a Repubblica il 6 novembre: il diario di un ricovero coatto in un reparto psichiatrico, non da paziente ma quasi da inviato speciale in incognito in quelle terre del mistero e della vergogna (nostra, non dei malati). Con la solita spietata asciuttezza, severo distillato di un cuore puro, Trevisan aveva narrato ogni dettaglio di quei dieci giorni d’orrore, dall’ambulanza in cui venne fatto salire “volontariamente…” fino alla reclusione da galera all’ospedale di Montecchio Maggiore (il reparto poi è stato chiuso), senza telefono, senza sigarette, accompagnato in bagno sempre da qualcuno, imbottito subito di farmaci («due Tavor da 2.5 mg, due Depakin 500»), il sonno come istantaneo svenimento senza fine, la protervia degli psichiatri, la minaccia continua del Tso (lui era per il momento in Aso, Accertamento sanitario obbligatorio, un gradino sotto il Trattamento): «Imprigionato, perché di questo si tratta, visto che tutte le finestre hanno le sbarre». Si era accorto, lo scrittore, dello squarcio nel telaio d’acciaio di una finestra e lo aveva fatto presente alla capo infermiera. «E allora?», aveva risposto la donna. «E allora, se solo avessi voluto ora sarei steso con le vene dei polsi recise».
Vitaliano amava le persone, non l’indiscriminata umanità. Preferiva starsene in disparte, fuoriclasse delle lettere senza nessun aggancio: «Non conosco nessuno, non chiedo niente». Lavorava senza editor: «Mi bastano i correttori di bozze, quello che scrivo è soltanto mio». Era un uomo dolcissimo e pieno di spigoli, contraddittorio e schivo. Aveva esordito con i libri abbastanza tardi, dopo una lunghissima teoria di mestieri e occupazioni anche sbilenche, alcune invero assai narrative: saldatore di gabbie per quaglie, stampatore a pressa di lamiere, operaio comune, scaricatore, muratore, manovale semplice, ladro di giubbotti, pusher di fumo, disegnatore tecnico, venditore di mobili, portiere di notte.
Anche ladro? Anche spacciatore? Glielo domandammo qualche anno fa, incontrandolo nella sua baita nel bosco di Giazza, terra vicentina, dopo l’uscita del magnifico Works (Einaudi Stile Libero). «Ho rubato giubbotti quando andavo (per poco) all’Università di Padova o magari no, leggete l’ultima riga del libro». Leggemmo: «Tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione». Una frase che ora sembra aggirarsi, profetica, anche tra le stanze della sua morte.
Narratore, drammaturgo, sceneggiatore, regista e pure attore: interpretò l’inquietante protagonista di Primo Amore di Matteo Garrone. I racconti d’esordio (le antologie Un mondo meraviglioso e Trio senza pianoforte/oscillazioni ) risalgono alla fine degli anni Novanta, mentre con I quindicimila passi aveva debuttato nel romanzo: con l’ossessione del protagonista nel contare e annotare i passi dei suoi tragitti, il libro prendeva di mira l’educazione cattolica e le ipocrisie della provincia italiana. Con I quindicimila passi aveva vinto il Campiello Europa e il premio Lo Straniero.
Stava lavorando a un nuovo romanzo per Einaudi, dal titolo
Black Tulips. Questo l’incipit: «Saltiamo a piè pari tutta la questione fisica, l’aria che ti avvolge, la sua consistenza quasi solida, gli odori eccetera; e via anche i colori, e sopra tutti via il colore. Al soggetto si addice il Bianco e Nero. Per difendermi, da me stesso e dal mondo, una delle mie tecniche preferite, quella che mi è sempre venuta naturale e che poi nel tempo ho affinato, arrivando a farne un’arte – arte, detto per inciso, per niente astratta, visto che mi dà da vivere – è trattenere un frammento di essere per sé, e farsi così, per quanto possibile, trasparenti. E vivere o scrivere, che poi, per chi scrive, è lo stesso, è nella trasparenza che mi sono sempre tenuto in equilibrio. No, non sempre; comunque». Nel giorno che trascorremmo insieme ci raccontò la sua collezione di false partenze, ci offrì del vino rosso, ci portò al bar Trego dove ogni tanto usava il wifi per scaricare libri, comprarsi qualche giacca su Amazon e guardare la Juve, ci spiegò come riscaldarsi con la legna («meglio essere soli in montagna che in pianura»), ci disse: «Tutti si riempiono la bocca di lavoro ma non più le mani», insistette che è il proletario o sottoproletario bianco, italiano, il meno protetto oggi tra i cristiani, ci spiegò che la vita è un tondino d’acciaio montato su un perno asimmetrico. Ma soprattutto nominò gli alberi uno a uno: il faggio, il frassino, il carpino, il pioppo nero. «Vèn che te mostro, te porto a vèdere ’sto bosco giovane, senti che odore».
L’ultima riga del suo libro “Works” “Tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione”