la Repubblica, 8 gennaio 2022
Intitolare l’Olimpico a Paolo Rossi?
ROMA – Non c’è assolutamente alcun bisogno di fare a piedi il giro dello stadio, non è assolutamente necessario girarci troppo intorno. Forse la vexata quaestio non esiste, perché – come ha detto l’assessore allo sport del Comune di Roma Alessandro Onorato – «intestare l’Olimpico a Paolo Rossi nasconde un approccio colonialistico alla città di Roma». Riavvolgiamo il nastro. Nasce tutto da un’idea partorita a novembre da Gabriele Gravina, presidente della Federcalcio. Da poco è stato svelato un busto di Rossi nel suo vecchio quartiere di Prato, Santa Lucia. Il primo ad aderire è Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia («mi sembrava doveroso»). Zanettin è tifoso del Vicenza e da ragazzo andava al “Menti” a veder giocare Rossi. La macchina è stata accesa, si muovono le alte sfere. Il 30 dicembre, con 387 voti a favore, la Camera approva un ordine del giorno che impegna il governo a valutare di intestare lo Stadio Olimpico a Paolo Rossi. Ma la domanda che pochi vogliono porre è: perché l’Olimpico?
Paolo Rossi è morto il 9 dicembre del 2020, troppo presto. Alla sua figura, al suo talento, così come ai suoi gol, abbiamo imparato a collegare il trionfo ai Mondiali del 1982: dove arrivò per un pelo ma dove fece la differenza. Per capacità, magia, fortuna. La sua precoce scomparsa, a 64 anni, ha cominciato ad alimentare un diffuso bisogno di dar concretezza alla riconoscenza, un luogo da dedicare alla sua memoria.
La proposta, nata dall’onda emotiva, divide da subito. E in modo netto. Il motivo è semplice: il calcio italiano è tante cose una sovrapposta all’altra, tanti volti e tanti cuori che non battono mai all’unisono. Chi propende per Rossi o ha una strana idea di partenza della città di Roma, come se fosse ancora una piazza da conquistare, o dell’Olimpico, come se fosse una zona franca. Oppure fa finta di non saperne nulla (il presidente della Fifa Infantino). Chi è contrario (la civiltà calcistica romana) pensa che si tratti di una madornale cantonata, basata su un clamoroso abbaglio storico e geografico.
Perché, alla fine, a pensarci bene, il vero problema dell’intestazione non sono né Paolo Rossi né lo Stadio Olimpico: bensì Roma, il modo in cui è percepita, e soprattutto la maniera, distorta, con la quale è stato metabolizzato, a livello nazionale, il senso del calcio che anima questa città, forse perché ha vinto solo cinque scudetti. Gli sconfitti, se il progetto andasse in porto, sarebbero i tifosi di Lazio e Roma, non sufficientemente attrezzati per difendere il nome dell’impianto nel quale riversano passione da quasi settant’anni.
Rossi non ha mai rappresentato Roma e quando è sceso in campo all’Olimpico ha sempre simboleggiato “gli altri”, gli avversari. Temuto, fischiato, mai idolatrato. Con la Nazionale? Quattro partite, tutte amichevoli, inframezzate dalla squalifica per le scommesse. I tifosi della Roma hanno ricordato anche questo: rimase impigliato nel Totonero. Antipatico ricordarlo, ma è la verità.
E poi perché Rossi non potrebbe risorgere emotivamente altrove? Per esempio a Vicenza. No. Lì lo stadio è intitolato a Romeo Menti. E poi è di provincia. Invece l’Olimpico, di proprietà di Sport e Salute quindi del Mef, è il più grande che c’è a disposizione. E lo si può toccare e deformare a piacimento, a quanto pare, perché Roma, nel calcio, è come un sacchetto di plastica vuoto: prende la forma di ciò che ci metti dentro. Nonostante la posizione comprensibile di Tardelli e Zoff («Pablito unirebbe»), al “Paolo Rossi” si recherebbe un pubblico offeso, privato di un nome che allude a una romanità tutta speciale, nella sua anomala unicità, perché qui si sono celebrate le Olimpiadi. Senza contare che sbatacchiare così il povero Pablito, beh, forse non giova neppure alla sua memoria.
Possibile che nessuno riesca a farsi un’idea di cosa sia veramente lo Stadio Olimpico? Non è un’entità al di sopra degli schieramenti. Non è Wembley che rappresenta il calcio inglese (e a nessuno viene in mente di cambiargli nome) e dove gioca la nazionale. Nemmeno se Lazio e Roma avessero uno stadio di proprietà, l’Olimpico cambierebbe natura. Rimane un impianto d’antica concezione, multifunzionale. E allora, se proprio dobbiamo rinominarlo, dedichiamolo a Livio Berruti, che qui qualcosa (di unico) ha combinato. O no?