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 2022  gennaio 08 Sabato calendario

“Sparate per uccidere”. Il pugno duro di Tokayev


ISTANBUL – Il cuore economico del Kazakistan mostra i segni dell’infarto che lo ha colpito. Avvolta nel gelo e nella nebbia, Almaty è lo spettro della città che era fino a tre giorni fa. Supermercati chiusi, banche con le vetrine sfondate da ruspe, negozi con scaffali depredati, ristoranti e uffici serrati, carcasse di automobili bruciate, sangue e bossoli sulla neve, qualche cadavere per strada, soldati che costruiscono check point con blocchi di cemento. Lo sgomento dei pochi cittadini in giro. «L’ordine è ristabilito», dice alla nazione il presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev. «Abbiamo avuto a che fare con ventimila banditi e terroristi, armati e addestrati, sia locali che stranieri. Devono essere distrutti: ho disposto di sparare senza preavviso, per uccidere».
È stata una carneficina, questa l’unica certezza che per ora si afferra dell’enigma kazako. L’ordine non è stato ristabilito, non del tutto. Gli aeroporti sono chiusi, quello della capitale Nur-Sultan funziona a singhiozzo. Ad Almaty ancora ieri si udivano colpi di fucile, seppur non paragonabili ai violentissimi scontri di piazza della Repubblica di mercoledì e giovedì immortalati dai telefonini di chi ha visto la guardia nazionale, i soldati kazaki e poi i militari stranieri inviati principalmente dalla Russia, sparare ad alzo zero contro i rivoltosi. Dopo quasi una settimana di proteste, le cifre fornite dal governo segnalano 26 morti tra i manifestanti e 18 tra le forze di polizia, tra cui due agenti decapitati, ma il bilancio ufficioso delle vittime è molto più alto. Sommosse e aspre repressioni si sono registrate in diverse città, meno centrali di Almaty nell’attenzione dei media. Quasi 4.000 gli arresti, 400 i feriti. E due domande sul tavolo. Come è stato possibile che l’ex repubblica sovietica più stabile dell’Asia Centrale sia piombata nell’abisso della rivolta civile in così poco tempo e per la liberalizzazione dei prezzi del gpl durata poche ore? Chi sono davvero quegli ultraviolenti, evidentemente usi alle armi, che hanno preso in ostaggio una protesta nata pacifica e fattasi guerriglia urbana?
Qualcosa si comincia a capire. Secondo analisti e fonti qualificate di intelligence, ad esempio, gruppi di anarchici filorussi sono stati notati sia tra i ribelli che hanno devastato il terminal dell’aeroporto di Almaty, sia tra coloro che hanno abbattuto la statua di Nursultan Nazarbayev a Taldykorgan. Altri parlano di miliziani musulmani radicali infiltrati tra la folla, ma è da verificare.
Viene data per certa, invece, la fuga dell’uomo che ha governato per quasi 30 anni il ricco Kazakystan (primo fornitore di uranio al mondo e tra i primi per il petrolio) prima di passare il potere nel 2019 al suo delfino Tokayev. Nazarbayev ha lasciato il Paese su un aereo insieme alle famiglie delle sue tre figlie Darigha, Dinara e Aliya. A riferirlo sono i media locali, che citano due diverse destinazioni finali: Abu Dhabi negli Emirati e Manas in Kirghiristan. Sul già complicato teatro kazako, poi, appare una vecchia conoscenza italiana, il dissidente e oligarca Mukhtar Ablyazov, che dalla Francia si proclama “leader della protesta”. È il marito di quell’Alma Shalabayeva, protagonista nel 2013 di un giallo internazionale per il suo rimpatrio forzato organizzato con l’aiuto del Viminale.
Gli Stati Uniti, per bocca del segretario di Stato Antony Blinken, «nutrono dubbi sulla natura della richiesta delle autorità kazake» per far scattare – per la prima volta – la clausola di difesa dell’Csto, permettendo così l’ingresso di circa 2.500-3000 militari stranieri di supporto dell’ex repubbliche sovietiche. «Mi sembra che avessero la capacità di affrontare in modo appropriato le proteste, non è chiaro perché abbiano voluto assistenza esterna». Dubbi e sospetti che si alimentano con l’elogio a Tokayev arrivato da un’altra superpotenza mondiale ritenuta ostile da Washington. «Ha preso misure forti in un momento critico, dimostrando senso di responsabilità come statista», ha detto il presidente cinese Xi Jinping, dichiarando di essere al suo fianco contro ogni tentativo di «forze esterne che istigano rivoluzioni colorate». Ma il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, in una riunione straordinaria coi ministri degli Esteri dell’Alleanza Atlantica in cui si è discusso della crisi in Ucraina, ha fatto capire a tutti dove, in realtà, può portare l’attivismo del Cremlino sul delicato scacchiere asiatico. «Il rischio di un conflitto con Mosca – ha detto è reale».