La Stampa, 8 gennaio 2022
L’entrata in politica di Berlusconi raccontata da Claudio Rinaldi
Mentre andavo a trovare Umberto Eco, il 13 marzo, le orecchie mi fischiavano da un pezzo.Che barba! Roma, Milano, Torino, erano piene di persone per bene che storcevano il naso davanti alla campagna de L’Espresso contro Silvio Berlusconi. Non dicevano, per carità, che era «vergognosa», come si tuonava tutti i giorni dal quartier generale di Forza Italia. No, obiettavano che quella campagna era tanto puntuale, martellante, ossessiva da risultare alla fine controproducente. Alcuni mi indicavano addirittura fra i tifosi inconsapevoli di Berlusconi. E costui amava ripetere che gli attacchi dei denigratori, specie se aspri, gli portavano nuovi consensi. L’Espresso stava dunque sbagliando tutto? Anche fra gli azionisti del settimanale c’era chi suggeriva di non fare di Berlusconi una vittima.
Così, sapendo che anche Eco aveva qualche perplessità, e che d’altra parte non era minimamente sospettabile di inclinazioni berlusconarde, andai a trovarlo quella domenica pomeriggio. Già in altre occasioni, del resto, lo avevo pregato di segnalarmi con franchezza ciò che ne L’Espresso non gli piaceva. E lui, semisepolto fra i 30 mila volumi che tappezzano le pareti della sua casa milanese di piazza Castello, l’aveva fatto.
Eco non mise in dubbio la legittimità di una serrata critica a Berlusconi. Anzi, trovò subito modo di precisare che considerava l’eventuale ascesa al potere politico di Berlusconi un evento quasi storico. «Se vince», osservò, «vuol dire che, per la prima volta nella loro storia recente, gli italiani fanno coincidere i loro comportamenti etico-politici con i comportamenti di consumo». Cioè? «Finora gli italiani compravano le pornocassette di Moana Pozzi, però mandavano le figlie dalle Orsoline. Adesso forse sono disposti a mandarle nei bordelli...». Eco scherzava, per sottolineare che si rendeva perfettamente conto della rilevanza del fenomeno Berlusconi. Capiva che si poteva ben scegliere di contrastare questo personaggio: del resto stava per rendere pubblica la sua scelta per i progressisti. Ma i tempi, i modi, i contenuti degli articoli de L’Espresso sotto il profilo dell’efficacia non lo convincevano.
Anzitutto, disse, «gli attacchi de L’Espresso sono cominciati troppo presto. Molti mesi prima che Berlusconi formalizzasse il proprio ingresso in politica. Così L’Espresso ha contribuito a fare di Berlusconi un mito, sia pure cercando di dargli una connotazione negativa: gli ha riconosciuto in anticipo la qualifica di capo della destra italiana». Mentre Eco parlava, pensai che forse non aveva tutti i torti. Certo le critiche a Berlusconi erano cominciate in estate, quando i fatti non erano ancora esplosi, e troppa gente ancora non aveva gli strumenti per valutare la portata di quelle critiche. Ebbi il dubbio che L’Espresso avesse sprecato le sue munizioni, e che anzi Berlusconi se ne fosse servito per temprare i propri scudi protettivi, per imparare a far fronte a tutti gli attacchi che gli sarebbero giunti addosso durante la campagna elettorale. Ma, alla fine, mi risposi che non avevo proprio niente da rimproverarmi. Semplicemente, L’Espresso aveva scoperto prima di tutti che Berlusconi stava per entrare in politica; aveva capito che la sua sfida poteva risultare vittoriosa; e aveva preso tutto questo sul serio, raccontando fatti, svelando retroscena, esprimendo opinioni. Si era insomma comportato come ogni giornale che si rispetti davanti a una vicenda importante.
La seconda obiezione di Eco fu che lo spazio dato a Berlusconi da L’Espresso era troppo. «Buona parte dei lettori de L’Espresso», spiegò, «già da tempo è orientata contro Berlusconi, e si annoia se tutte le settimane deve leggere le storie dei suoi debiti e delle sue bugie, del Caf e della P2: alla lunga, queste notizie piovono sul bagnato. L’altra parte dei lettori, quella non ostile a Berlusconi, non si fa certo convincere da attacchi troppo numerosi e insistenti; anzi, ne è infastidita».
Un dosaggio eccessivo, dunque? Se avesse voluto fare campagna contro Berlusconi, Eco si sarebbe mosso diversamente. E qui spuntò l’obiezione sui contenuti, la terza. «Non avrei propinato ai lettori 10-20 pagine a numero. Avrei cercato i veri punti deboli di Berlusconi. E, una volta individuatili, avrei battuto solo su di essi. Anche con maggiore durezza, all’occorrenza; ma in modo più concentrato, più mirato».
Per esempio? «Da quanto ho potuto osservare in questa campagna elettorale, un difetto di Berlusconi è l’incapacità di parare i colpi a sorpresa, le botte non previste. In casi del genere, Giulio Andreotti era pronto a opporre la propria maschera, l’impassibilità del potere. Un Pansa è bravissimo nello sferrare contrattacchi micidiali: si pensi al suo celebre scontro con Giuliano Ferrara a Il rosso e il nero. Berlusconi no, è troppo costruito, troppo programmato, ha un repertorio di idee e di battute troppo limitato. Dice sempre le stesse cose, e le dice bene soltanto se il contesto in cui si trova è amichevole, tranquillo. Il cazzotto improvviso lo fa barcollare. Lo si è visto quando la procura di Milano voleva arrestare Marcello Dell’Utri: questo evento lo ha colto completamente alla sprovvista, lo ha mandato nel pallone, lo ha fatto uscire dai gangheri. Credo che lo stesso Berlusconi conosca molto bene questa sua debolezza, e che per questo si sia dato la regola di rifuggire dai confronti diretti con gli avversari: lì non riesce a dare il meglio di sé».
Dissi a Eco che forse il rifiuto dei confronti dipendeva anche dalla sconfinata presunzione di Berlusconi: egli si crede più in gamba di qualunque altro essere umano, e se si trova allo stesso livello di un avversario, anziché su di un palcoscenico sospeso sopra folle adoranti, si sente ingiustamente sminuito.
Eco rifletté, poi ribadì: «Se L’Espresso voleva davvero mettere in difficoltà Berlusconi, doveva essere meno prevedibile. E dunque non tanto fornire prove esaurienti della fondatezza di tante accuse contro di lui, quanto mirare ai suoi talloni d’Achille. Per uno che trae parte della sua forza dalla sua storia di self-made-man, e dall’ottimismo che ne consegue, rivelarsi impreparato agli eventi, nervoso, irascibile può essere un disastro».
Presi nota di tutto, ringraziai Eco e me ne andai. Ripensai a quel colloquio nei giorni successivi, quando fui costretto a incassare altre critiche. Valentino Parlato, del Manifesto, andava dicendo che involontariamente L’Espresso aveva dato una mano a Forza Italia. E al Corriere della Sera, lunedì 21 marzo, Indro Montanelli dichiarò: «Non posso credere che il mio amico Rinaldi abbia voluto portare delle fascine al fuoco di Forza Italia, ma la demonizzazione approda sempre al risultato contrario quando si esagera. Sono riusciti a fare di Berlusconi il protagonista della politica italiana».
Lo stesso osservò Lucio Colletti. Idem Gianni Agnelli. L’Espresso quinta colonna di Berlusca! Fosse vero, ormai si potrebbe bisbigliare: missione compiuta. Ma non è vero, non è mai stato vero. Diciamoci la verità, amici: Berlusconi era forte, era fortissimo, i suoi voti li avrebbe presi in ogni caso. Si poteva fermarlo solo denunciando fin dall’inizio, davanti al Paese, l’assurdità di una situazione in cui il magnate della tv dava la scalata al governo impugnando come clave quelle reti tv che lo Stato gli ha concesso di possedere. Peccato che per mesi L’Espresso sia stato l’unico giornale a svolgere questa opera e che gli avversari politici di Berlusconi non abbiano aperto gli occhi in tempo. Quanto alla “demonizzazione”, caro Indro, la parola non è la più adatta. L’Espresso, purtroppo, non ha demonizzato Berlusconi. Lo ha solo raffigurato, e tu lo sai bene, per quello che è. —