Avvenire, 8 gennaio 2022
La famiglia Cucchi chiede 2 milioni di risarcimento
Roma
Si sono sentiti «carne da macello», vittime di depistaggi per allontanare i sospetti sui responsabili della morte di Stefano Cucchi e soprattutto per allontanare qualsiasi responsabilità delle istituzioni. Per questo i legali della famiglia del geometra 30enne, morto il 22 ottobre 2009 mentre era sottoposto a custodia cautelare, hanno chiesto un risarcimento di oltre 2 milioni di euro e una provvisionale di 750mila euro. Per la famiglia di Stefano Cucchi, infatti, i depistaggi per evitare che si arrivasse alla verità sono «iniziati dal primo momento» e sono stati messi in atto per «allontanare qualsiasi responsabilità delle istituzioni dello Stato sulla sua morte».
Nel processo a carico di otto carabinieri, accusati dalla procura di Roma di avere operato per sviare il corso delle indagini su quanto avvenuto dodici anni fa, è stata la volta delle parti civili. In particolar modo a far rumore è stato soprattutto il duro atto d’accusa del legale della famiglia Cucchi, l’avvocato Fabio Anselmo, che individua nel generale Alessandro Casarsa, l’imputato più alto in grado nella catena di comando, il «principale motore e anima nera» nell’attività di depistaggio. Per Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, il pm Giovanni Musarò ha sollecitato una condanna a 7 anni di carcere. Nei confronti degli altri 7 imputati – tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma – i reati contestati a vario titolo sono di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia.
«L’esame di Casarsa è una confessione – ha sottolineato l’avvocato Anselmo davanti al giudice monocratico – di chi si sente al di sopra di tutto e di tutti, di chi mostra un amore viscerale per la carriera. È l’uomo operativo: si è tentato di farci credere che nessuno sapeva nulla, che le notizie venivano apprese dalla stampa. La cosa che più mi ha stupito in questo processo è che si è negata l’evidenza, la logica, fino alla fine».
Per il legale di parte civile i «depistaggi sono stati finalizzati, fin dal primo momento, ad allontanare qualsivoglia responsabilità delle istituzioni dello Stato sulla sua morte, quando
Stefano era proprio nelle mani dello Stato». Il giovane venne arrestato la sera del 15 ottobre 2009 e trovato in possesso di hashish e cocaina, ma già il giorno seguente durante l’udienza di convalida del fermo Cucchi mostrava ematomi agli occhi. Dopo l’udienza le sue condizioni peggiorarono ulteriormente, costringendo al ricovero in ospedale dove morì sei giorni dopo per le gravi lesioni e fratture. «L’Avvocatura di Stato riconosce la gravità assoluta dei delitti commessi dagli imputati. Fatti che hanno impedito l’accertamento della verità», è così lo sfogo via social della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi. L’Arma, che si è costituita parte civile nel processo insieme a Viminale e Palazzo Chigi, infatti «ha subìto un danno grave. Un danno grave che deve essere risarcito».
Nel corso del suo intervento il penalista Anselmo ha fatto anche ascoltare in aula la registrazione dell’udienza di convalida del fermo di Cucchi, avvenuto per detenzione di droga. «Fa venire i brividi ascoltare Stefano: esce da quell’udienza per andare a morire – ha aggiunto Anselmo – Cucchi era un ragazzo perfettamente sano, faceva palestra, era magro esattamente come sua sorella e nessuno rivedendo le sue foto direbbe che è una tossicodipendente». Ma è nel passaggio successivo che il legale continua nell’affondo: «Siamo stati carne da macello per queste persone, ma noi siamo esseri umani: è stato fatto di tutto per nascondere responsabilità gravi». Da questo processo, infatti, conclude, «è emerso che esistono tante parti sane nell’Arma».