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 2021  dicembre 06 Lunedì calendario

Biografia di Toni Capuozzo (Antonio C.)

Toni Capuozzo (Antonio C.), nato a Palmanova (Udine) il 7 dicembre 1948 (73 anni). Giornalista. Cronista di guerra • «Grande inviato, uno dei giornalisti televisivi più bravi» (Aldo Grasso) • «L’irrequieto Toni Capuozzo: mastino da trincea, straordinario professionista» (Mirko Crocoli, Affari Italiani, 16/1/2021) • «Si è sempre tenuto lontano dai palazzi romani. Alla buvette di Montecitorio ha preferito le montagne dell’Afghanistan o le lunghe strade dell’Iraq» (Claudio Rinaldi, il Giornale, 15/4/2021) • Debuttò su Lotta Continua nel 1979. Professionista dal 1983. Ha scritto per Reporter, per Panorama Mese e Epoca. Si è occupato di mafia per Mixer (Rai) di Giovanni Minoli. Già inviato de L’istruttoria (Italia 1). Già collaboratore delle testate del gruppo Mediaset (Tg4, Tg5, Studio Aperto). Presentatore di Terra! (Canale 5, 2000-12, Rete 4, 2012-17). Vicedirettore del Tg5 fino al 2013. Era a Belgrado durante i bombardamenti della Nato e a Tripoli durante la guerra a Gheddafi. È finito nella lista nera di Saddam Hussein ed è riuscito a strappare un’intervista a Jorge Luis Borges, che ne concedeva pochissime. Ha vinto decine di premi e scritto una dozzina di libri. «Fare il giornalista non era il mio sogno, e non lo era nemmeno la tivù. In pratica ho scoperto che quel lavoro era il modo per pagare la mia passione, che era viaggiare e scrivere».
Titoli di testa «C’è una cosa che ho imparato girando da inviato nella ex Jugoslavia. Tutti i ponti erano chiamati “della fratellanza e dell’unità”. Ecco, i “fratelli uniti” alla fine si sono accoltellati a vicenda e quei ponti sono stati abbattuti. Se il bene diventa una predica, una lezione calata dall’alto, rischia di alimentare i sentimenti meno nobili, che diventano un brontolio di pancia sordo, che non viene a galla e non può esprimersi, e poi scoppia all’improvviso nel peggiore dei modi».
Vita Il padre, Pietro, è un poliziotto napoletano. La madre è di Trieste. «Ti senti più napoletano o triestino? “Nessuno dei due, ed entrambi. In realtà credo di avere un imprinting forte dal Friuli dove ho vissuto, che non era la terra né di mio padre né di mia madre, ma sono cresciuto in Francia. L’adolescenza e l’infanzia le ho vissute lì, dove ho frequentato le scuole» (Irene Vella, DiLei, 4/12/2020). «Sono un mix di tutte queste culture, con caratteristiche appartenenti ai luoghi dove ho vissuto». «Sono un friulano figlio di un meridionale, un italiano senza confini» • Toni, da piccolo, è un ragazzino difficile. «Eravamo una famiglia modesta, ma felice, eppure ero irrequieto, nei giochi, a casa, a scuola». Ho avuto la tentazione di scappare di casa sin da bambino: la prima volta ero così piccolo che sono tornato indietro perché ho visto degli zingari e avevo paura mi rapissero» (a Crocoli). Frequenta il liceo classico Ristori di Cividale. È bravo in italiano, ma va malissimo in matematica, fisica e filosofia e viene bocciato due volte. «Studiavo solo quello che mi andava, e ho dovuto cambiare liceo dopo aver insultato un insegnante». «A diciotto anni sono scappato di casa, questa volta davvero, per girare l’Europa in autostop. Sono finito in carcere – quindici giorni – in Germania per vagabondaggio, e ho preso un foglio di via dall’Olanda». Nel 1967 si iscrive al Pci. Nel 1968 passa alla sinistra extra-parlamentare. Cerca di raggiungere Parigi per partecipare alla rivoluzione, ma, quando ci arriva, il maggio è già finito. Nel 1969 si iscrive all’Università di Trento, facoltà di sociologia. «Ho scelto Trento perché mi sembrava un posto interessante e pieno di novità. Non avevo in mente di fare il sociologo. Mi incuriosiva e mi attirava il fatto che allora veniva chiamata “università critica” e quindi sono stato attirato dal clima sociale e politico di quella facoltà più che dall’iter degli studi». Frequenta pochissimo, perché è uno studente-lavoratore: fa l’operaio edile, l’operaio fonditore, il facchino, l’insegnante nei corsi per apprendisti falegnami («facevo le ore di italiano e cultura in generale»). «A Trento non ho mai avuto una casa fissa. Ho dormito per qualche notte in quello che allora era l’ospedale Santa Chiara, dopo la birreria Pedavena. Poi sono stato ospite di amici qua e là, poi per un periodo c’era una forma di aiuto per studenti in qualche albergo. Io stavo in uno che mi pare si chiamasse albergo Trieste». Sono anni di fermento, a Trento. Ci sono il corteo con i due missini fatti ostaggio, l’accoltellamento degli operai alla Ignis, gli studenti che entrano in Duomo durante la quaresima e interrompono la messa per contestare l’arciverscovo. Ci sono Marco Boato e il movimento studentesco. C’è Renato Curcio, allora un tipo silenzioso che faceva una rivista chiamata Lavoro politico. «Episodi che hanno fatto la storia nella facoltà di Sociologia, ma io non ne ho vissuto neanche uno. È abbastanza ironico: si suppone che uno, come giornalista, arrivi presto sulla notizia, invece sono arrivato fuori tempo massimo. Tutte le cose che hanno lasciato un segno, un ricordo - bello o brutto non importa - io ne ho sentito solo parlare, non le ho viste» • Il giovane Toni, più che alla politica, pensa ad altro: fa l’operaio a Marghera, il volontario dopo il terremoto in Friuli del 1976, il bagnino-ombrellaro alla spiaggia di Ostia, il disegnatore di Madonne sui marciapiedi di Marsiglia. «Il giorno della laurea per me è stato memorabile ma non per la laurea in sé, ma per quanto l’ho fatta lunga, se calcoli che mi sono iscritto nel 1969 e ho preso la laurea nel 1976, quindi dopo sei anni. Era un peso che volevo togliermi. Ricordo che mi sono seduto di fronte alla commissione, stavo per iniziare e il capo dei bidelli ha spalancato la porta dicendo: “Hanno sequestrato l’onorevole Moro”. Puoi immaginare lo sconcerto di tutti e il disorientamento. Io, sapendo che Moro insegnava a Roma, dissi una cosa di cui poi mi sono vergognato un po’: “Credo che il prof. Moro vorrebbe che continuassimo le tesi di laurea”. E così è andata anche se è stata una cosa un po’ sbrigativa”» (a Gramola) • «Presa la laurea, non sapendo bene cosa fare sono partito per un lungo viaggio. In Nicaragua mi sono imbattuto in una rivoluzione mancata e, tornando in Italia, ho capito che il giornalismo poteva trasformare in un lavoro le mie due passioni, scrivere e viaggiare» (Crocoli) • Nel 1979 debutta su Lotta Continua, dove si occupa di America Latina. Diventa amico di Adriano Sofri. «Entrambi figli di una triestina e di un militare meridionale (marinaio il padre di Sofri, poliziotto quello di Capuozzo). “Ma lui era il capo, io un militante. Più che Lotta continua ci univa il Friuli. Da bambino Adriano passava mesi a Masarolis, il paese della sua fantesca slava. L’ho riaccompagnato laggiù da grande”» (Cazzullo) • «Sognavo di viaggiare, ero contento quando mi dicevano parti, e se ho avuto qualche potere nella mia carriera è stato quello di inviarmi da solo, o di chiedere di essere inviato in qualche posto contando su una risposta positiva» • «Da Lotta Continua a Reporter e Panorama Mese. In quegli anni già in “guerra”, le Falkland. Ci vuol menzionare qualche aneddoto? I primi passi e l’arrivo in Argentina. “Mah… è stata l’unica guerra che non ho visto, perché eravamo obbligati a stare nella capitale, a raccontare gli umori di una guerra filtrata dal regime, senza esplosioni, senza urla, senza funerali, solo il mormorio dei commenti per strada e la retorica bellica. Il ricordo più bello è l’essere riuscito a intervistare Jorge Luis Borges”» (Crocoli). «Cosa ti ricordi di quell’incontro? “Mi ricordo tutto perché è stato un unicum, ho un carattere semplice, sono un buon raccoglitore di confidenza di persone qualunque, mi è successo molte volte che le persone si aprissero. Non sono mai stato un grande intervistatore, tanto meno di persone potenti, perché non è mai stata la mia specialità. Quindi per me quell’intervista è rimasta un fenomeno eccezionale, anche perché è stata figlia di una ricerca caparbia: ho iniziato a telefonare a tutti i Borges dell’elenco telefonico di Buenos Aires, che sono centinaia. Ogni giorno facevo delle telefonate, fino a quando non sono incappato in lui, era rubricato con il nome della madre, Acevedo Borges. Sono stato bravo a presentarmi come giornalista di un piccolo giornale ininfluente, lui persona molto gentile rifuggiva ogni intervista, perché veniva da una famiglia che aveva combattuto per l’indipendenza argentina, ma era anche un debitore della cultura anglosassone. Era un po’ come un figlio di due genitori che stanno divorziando: devi stare attento a non chiedere se sta con la mamma o con il papà”. E cosa ti rispose? “Mi disse: ‘venga domattina’ e mi diede l’indirizzo. Io non ero un lettore di Borges, quindi corsi in libreria, comprai la sua opera completa, e passai la notte a scartabellare e telefonai anche in Italia a un mio amico, dicendo di non avere idea sulle domande da fare. Il giorno dopo feci quell’intervista anche un po’ a disagio, avevo un registratore molto modesto, ancora oggi si sente, ma il volume è molto basso, con il sospetto che lui intuisse tutto quello che pensavo, sai a volte i ciechi vedono meglio dentro le persone. Alla fine gli dissi che dovevo confessargli una cosa, anzi tre: la prima, che non avevo mai letto niente scritto da lui, prima di quella notte, e lui si mise a ridere; la seconda, che non era vero che ero di Venezia. Infine la terza, che le domande non erano tutte mie, che avevo telefonato a un amico affinché me le suggerisse. Lui mi diede una risposta molto bella: ‘Le domande sono come i figli, conta chi li mette al mondo ma poi vivono di vita propria’”» (Vella). Forse, il momento di svolta della sua carriera fu il suo reportage dall’Amazzonia per Reporter, diretto da Enrico Deaglio. Essendo da poco uscito un inedito di Hemingway piuttosto deludente, Sofri, che di Reporter firmava l’inserto culturale, lo presentò così: «Meglio un Toni Capuozzo vivo che un Hemingway morto». Fu la sua definitiva consacrazione (Cazzullo).
Amori Sposato, due figli. Ha raccontato di aver portato con sé da Sarajevo, durante la guerra, un bambino di sette mesi di nome Kemal, e di averlo cresciuto fino ai cinque anni. Il bambino, orfano di madre e senza una gamba a causa di una bomba, aveva bisogno di una protesi.
Politica «Resto legato al ricordo del mio Friuli, dopo il terremoto del ’76. La classe politica regionale di allora sospese le ostilità e lavorò, ognuno con i suoi ruoli, governo e opposizione, in modo concordato per ottenere la miglior legge possibile sulla ricostruzione».
Editoria «Se la ricorda la famosa lettera a Silvio Berlusconi? Solo attestato di stima come editore o anche vicinanza personale? “Gratitudine per l’editore. Affetto per un uomo molto fortunato ma anche molto bersagliato. In vita mia l’ho incontrato di sfuggita due volte, e sempre all’estero, a Mosca e in Giordania. È bastato per farmi capire che è un uomo che vuole farsi voler bene. Mi è simpatico, ha una sua semplicità diretta nell’accostarsi a una persona. Ha fatto grandi cose, e sicuramente cose meno grandi, ma io ho sempre amato poco il pettegolezzo, i giudizi sulle vite private, e ho amato poco la politica italiana. La sua eredità in politica estera mi è sempre sembrata più che positiva. Gli scrissi una lettera di auguri specificando che non l’avevo mai votato. E la scrissi da pensionato, non era più il mio datore di lavoro. La scrissi dicendo che non l’avrei modificata di una virgola. E andò così: ho scritto quello che pensavo e sentivo”» (Crocoli).
Guerra «Penso che nessuno mi abbia mai visto in televisione, se non per caso, con giubbetto antiproiettile ed elmetto, perché ogni volta che dovevo fare un live li toglievo, stavano di lato, perché non volevo dar l’idea che la notizia fosse “ecco Capuozzo in prima linea”, no la notizia era quella che stavo per raccontare e persino il tono della voce è sempre stato normale, non ho mai voluto “forzare”».
Imprevisti/1 Nell’aprile 2002, durante la Seconda Intifada, lui e altri quattro giornalisti italiani finirono bloccati tra i miliziani palestinesi e i tank israeliani a Betlemme e, per salvarsi la pelle, si rifugiarono nella Basilica della Natività.
Imprevisti/2 Nel maggio 2004, in Iraq, lui e il suo operatore, Salvo La Barbera, accorsi sulla strada tra Najaf e Kufa subito dopo un attentato, furono fermati da uomini armati che li costrinsero a seguirli. «Ci hanno preso tutto quello che avevamo... i documenti, i taccuini, gli orologi, tutta l’attrezzatura. All’operatore persino le scarpe». Impiegarono venti minuti a spiegare loro che non erano americani, ma giornalisti italiani.
Curiosità Ama le prime ore della giornata: «È al mattino che si trovano, prima degli altri, le storie migliori» • Gli piacciono i lavori di falegnameria e l’odore del legno • Non sa suonare nessuno strumento, è stonato e pessimo nel disegno • Il premio cui è più affezionato è un premio di narrativa per studenti vinto al liceo. «Ero un pessimo studente e il fatto di aver vinto un premio cittadino, allora stavo a Udine, mi è stato d’aiuto» • È cittadino onorario di Sarajevo • Molto attivo a teatro. Nel 2009 ha messo in scena uno spettacolo con Mauro Corona i cui proventi servirono a finanziare una casa-alloggio per il centro grandi ustionati di Herat. «Per ustionati in Afghanistan si pensa alle ustioni da attentato, però molto spesso si tratta di incidenti domestici perché nei villaggi non raggiunti dalla modernità spesso si cucina a terra e allora c’è il bambino che cade sulle brace, bombole che non sono come le nostre bombole con le norme di sicurezza, ritorni di fiamma che accendono i vestiti e in più ci sono le ragazze che si danno fuoco per sottrarsi ad un matrimonio forzato. Anche se viene detto a bassa voce, ma purtroppo c’è anche questo» • Giocò una partita di calcio per beneficienza a Kabul, gli regalarono una tuta della nazionale afghana. «Me la diedero come premio per il miglior giocatore, probabilmente per compassione perché perdemmo 14 a 0» • Gli spiace di non aver visto da vicino la caduta del muro di Berlino • Kemal, il ragazzo che si portò in Italia e che trattò come un figlio, ha avuto un cancro, ma ora sta bene. Si sentono ancora • Nel 2019 è stato operato al cuore. L’ha fatto sapere lui stesso ai lettori con un post su Facebook: «Adesso, a cose fatte, posso dirvelo. Questo vecchio cuore malandato vi vuole bene, ma non vi libererete facilmente di me» • «Sono fiero di aver conosciuto sul campo gli ultimi grandi inviati, come Ettore Mo, o Italo Moretti, o Bernardo Valli. Credo di essere stato il più giovane di quella generazione, piuttosto che il più vecchio di quella successiva» (a Crocoli). «Sono invecchiato ma dentro di me sento molte delle cose che mi porto dietro da quando ho iniziato, scolpite, sgrezzate dalla perdita di qualche illusione e dall’accumulo di tante esperienze. Adesso voglio finire la prima parte di un audiolibro sulla mia vita da inviato. L’ho scritta – riguarda gli anni in America Latina - e devo registrare l’audio. Poi passerò a scrivere il resto, i Balcani, l’Africa, il Medio Oriente, l’Afghanistan» (ibidem).
Titoli di coda «Saresti felice se i tuoi nipoti seguissero le tue orme? “Secondo me quel tipo di giornalismo non esiste più. Quindi, anche volendo, non potrebbero farlo”» (Vella).