28 dicembre 2021
Tags : Barbara Steele
Biografia di Barbara Steele
Barbara Steele, nata a Birkenhead (Inghilterra, Regno Unito) – secondo altre fonti, tra cui alcune sue interviste, sarebbe invece nata in Irlanda, o persino su un’imbarcazione irlandese prossima all’approdo a Liverpool – il 29 dicembre 1937 (84 anni). Attrice. «Gli horror che ho fatto in Italia ora mi sembrano così eleganti, sofisticati, pieni di silenzi e di sfumature. Rispetto al fragore e al vuoto degli effetti speciali di oggi, sembrano film di Visconti» (a Maria Pia Fusco) • Figlia di un esportatore e di una pianista, «Steele è cresciuta in relativa agiatezza e benessere anche nel corso dei bombardamenti del Liverpool Blitz, durante la Seconda guerra mondiale. All’età di sette anni, Steele ha fatto il suo debutto sul palcoscenico come Biancaneve in uno spettacolo scolastico. Iscritta all’età di 11 anni a un ginnasio progressista, ha goduto di un corso di studi non ortodosso e liberal che è stato la chiave per lo sviluppo della sua sensibilità artistica. Ha continuato la sua formazione alla Birkenhead High School per ragazze, alla scuola mista Beltane nel Wiltshire e alla King Alfred School a Hampstead, Londra» (Richard Harland Smith). «Ricordo di aver visto il mio primo film, e quello fu l’evento più sbalorditivo. Le maschere con piccoli vassoi di tè e biscotti. Errol Flynn saltellava in giro in calzamaglia verde. Ricordo che, rincasata, andando a letto pensai: “Ho abbastanza a cui pensare per un anno intero”» (a David Cairns e Daniel Riccuito). «Ha studiato pianoforte e danza, ma il suo vero amore era l’arte: Steele ha continuato a studiare pittura alla Chelsea Art School di Londra e successivamente a Parigi, alla Sorbona. È tornata a casa in Inghilterra e ha trovato lavoro dipingendo set per una compagnia teatrale regionale, ma inevitabilmente la flessuosa diciannovenne ha finito per calpestare le tavole invece di dipingerle» (Maitland McDonagh). «Dopo aver preso lezioni di recitazione alla progressista Summerhill School di A.S. Neill, Steele ha iniziato a ottenere ruoli drammatici a Londra e nei teatri regionali. Mentre appariva in una produzione di Bell, Book and Candle di John Van Druten al Citizen’s Theatre di Glasgow, è stata scoperta dalla J. Arthur Rank Organisation, che le ha offerto un contratto in esclusiva. Dopo aver fatto il suo debutto cinematografico nella commedia universitaria di Wolf Rilla Uno straniero a Cambridge (1958), Steele è stata inserita in una serie di progetti dimenticabili della Rank, tra cui il remake del 1959 di Ralph Thomas di Il club dei 39 di Alfred Hitchcock (1935) e il dramma razziale di Basil Dearden Zaffiro nero (1959). Sebbene Steele fosse stata selezionata dal teatro per essere un possibile successore di Jean Simmons, la Rank aveva difficoltà a utilizzare la sua bellezza dagli occhi scuri, il cui bell’aspetto gotico era frammisto a un tocco di crudeltà. Alla fine la Rank ha venduto il contratto di Steele alla 20th Century Fox, che ha importato l’attrice negli Stati Uniti» (Harland Smith). «Dopo aver trascorso buona parte del suo contratto con la Fox abbronzandosi sulla spiaggia (si è presa una breve pausa per apparire in un episodio della dimenticata serie tv Adventures in Paradise), Steele è stata chiamata per una parte in Stella di fuoco (1960), un film atipico di Elvis Presley – atipico in quanto aveva una storia e non era del tutto terribile – diretto da Don Siegel. “A metà della mia prima intervista”, ha detto a un giornalista, che probabilmente è stato sorpreso dal suo candore, “mi hanno detto che avevano bisogno di una bionda che ancheggiase con un accento del Midwest… Sono alta, magra, bruna e ovviamente mista. Così mi hanno tinto i capelli e hanno chiesto a qualcuno di darmi lezioni su come dire cose come ‘Salve, amico’”» (McDonagh). «“In una scena, dopo un massacro, galoppavo per duecento miglia in mezzo al deserto, ma ero vestita come Doris Day, con una maglia a scacchi bianca e rosa e dei meravigliosi pantaloni immacolati… Ho pensato che fosse assurdo, che avrei dovuto avere un aspetto disastroso dopo tutto quello che era successo, e non sapevo ancora nulla di come si fa un film. Così ho preso del fango e della sporcizia e me la sono spalmata addosso. Tutti sono impazziti, si sono infuriati. Strillavano: ‘Continuità!’. E io: ’Cos’è la continuità?’. È arrivato anche il regista, e alla fine ho dato di matto: ho buttato tutti i miei costumi a terra, ho detto addio per sempre e ho preso un volo per New York”. […] È così che la futura regina del gotico arriva in Italia. “Era come Parigi negli anni ’20: il posto giusto al momento giusto”. E aggiunge: “Inoltre l’Italia mi era incredibilmente familiare, come se ci avessi vissuto per centinaia di anni e stessi tornando a casa”» (Giovanna Branca). «Roma per me era legata al latino, che avevo studiato a scuola: anche se mi avessero chiamata a cucinare, sarei andata. Ma Roma è stata una rivelazione, al di là delle aspettative, eravamo in pieno boom, la gente era ricca, ottimista, aperta, generosa, creativa. Sembrava di essere nell’ombelico del mondo» (a Cristiana Paternò). «Bava, un direttore della fotografia che sta per diventare regista, aveva visto la foto di Steele in una pila di immagini che la Fox aveva inviato all’italiana Galatea Film, partner dello studio americano. […] Bava ha visto il potenziale negli sguardi inquietanti di Steele […] e l’ha scelta per il doppio ruolo della principessa Katia, una strega che è stata bruciata sul rogo dopo aver inchiodato una maschera d’oro al suo volto, e di una dolce discendente di Katia, di cui lei s’impossessa, spingendola a ogni sorta di malvagità» (McDonagh). «“La maschera del demonio è stato un successo incredibile, in tutto il mondo, ed è ancora molto popolare adesso”. Perché secondo lei quel film del 1960 ha avuto così tanto successo? “Perché era diverso dagli altri, così come io ero diversa dalle altre attrici che facevano quei film. Mi dicevano tutti che ero una bella ragazza, ed effettivamente credo che il mio corpo non fosse niente male. Ma poi aggiungevano: ‘È bello anche il volto, anche se è strano’. E infatti il mio volto era strano, nel senso che è asimmetrico, non ha i lineamenti scolpiti, può piacere ma è anche un po’ inquietante. Di solito le bellezze dell’horror erano puramente decorative, erano le vittime del vampiro, dovevano essere affascinanti e poi fare una brutta fine, magari mentre si stavano spogliando. Negli horror italiani era un po’ diverso, perché di solito il vero centro di malvagità erano proprio le donne, che diventavano così le protagoniste assolute. Il male è femmina, in Italia. Credo sia un po’ il frutto della vostra cultura cattolica: il peccato originale, cose del genere. Sta di fatto che i ruoli che ricoprivo erano quasi sempre da protagonista, e il più delle volte cattivissima. Devo dire che questo non mi dava nessun fastidio, anzi mi faceva piacere”» (Caterina Taricano). «E horror fu. Da quel momento in poi il nome di Barbara Steele si lega indissolubilmente al genere, specialmente in Italia, dove nel 1962 lavora anche con Riccardo Freda in L’orribile segreto del dottor Hichcock. […] Dopo vennero Antonio Margheriti, Lucio Fulci e molti altri. Nel 1961 Roger Corman la richiama in America per recitare al fianco di Vincent Price ne Il pozzo e il pendolo. “Credo che Corman sia riuscito a girare tutto il film in una settimana”, ricorda Steele, che nel ’68 tornerà invece nella natia Inghilterra per recitare in Black Horror – Le messe nere di Vernon Sewell, al fianco di altre due leggende del genere: Boris Karloff e Christopher Lee. […] “Si è sempre segnati dal primo successo, è quasi impossibile sfuggirvi. Avrei voluto fare anche altre cose, e ne ho fatta qualcuna, ma alla fine sono famosa solo per i miei ruoli gotici”. Tra le “altre cose” c’è L’armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli, e uno dei ricordi più cari dell’attrice inglese: il suo ruolo nei panni di Gloria Morin in 8 ½ di Fellini» (Branca). «Come avvenne l’incontro con Fellini? “Avevo visto a Londra La strada e mi aveva incantato per la sua malinconia: trovavo Giulietta Masina sublime, e Anthony Quinn aveva una forza fantastica. Era un film pieno di anima. Quando Federico mi chiamò per un provino, andai subito. Sono stata su una sedia per ore ad aspettarlo. Mi ha fatto molte domande: cosa avevo mangiato la sera prima, se ero innamorata e di chi. Poi mi ha mandata direttamente alla prova costumi”» (Paternò). «Una volta mi è accaduta una cosa stranissima, premonitoria. Un giorno passeggiavo a Los Angeles con mio figlio Jonathan. Traversammo un quartiere distrutto da un incendio, ma tra le ceneri notammo un libro su 8 ½, aperto proprio sulle mie battute. La sera stessa, Fellini mi chiamò: “Barbarina, vieni a girare Casanova con me?”. Strana coincidenza… Poi, la scena in cui facevo una donna che cura gli uomini dall’impotenza è stata tagliata, purtroppo» (a Cinzia Romani). «In quei tempi in compenso la regina del gotico prende parte al debutto di una serie di grandi nomi. […] Fra i primi c’è David Cronenberg, che si presenta da lei “con un enorme mazzo di calendule arancioni” per chiederle di partecipare a Il demone sotto la pelle, il suo primo horror, del 1975. Poi vengono Joe Dante con Piraña – prodotto da una vecchia conoscenza, Roger Corman – e Jonathan Demme con Femmine in gabbia. “Erano tutti ragazzi stupendi, non potrei dire nulla di male di loro”, ricorda Steele. Il più grande rimpianto, nonostante tutto, è però avere lasciato l’Italia. “Andarmene è stato un errore terribile che non mi perdonerò mai. Ho sognato l’Italia almeno una volta alla settimana per 15 anni… come la pelle di un ‘adorato’”» (Branca). «Steele sposò lo sceneggiatore James Poe (La gatta sul tetto che scotta, I gigli del campo) e tornò negli Stati Uniti. Ebbero un figlio. […] Il marito di Steele scrisse un ruolo per lei in Non si uccidono così anche i cavalli? (1969), ma andò a Sarah Miles. Il matrimonio non durò, anche se lei e Poe rimasero in buoni rapporti fino alla sua morte nel 1980. Steele lavorava qua e là. […] Ma stava cercando un cambiamento» (McDonagh). «Ero un’emigrante in un Paese che non mi affascinava, non ero bionda, non ero giovane, e compresi che non sarei mai stata una diva: così per un po’ ho fatto la produttrice». «Negli ultimi decenni l’attrice inglese si è vista solo in qualche piccolo ma significativo ruolo, come nel film di Ryan Gosling Lost River del 2014» (Cecilia Ermini). «Una strana esperienza. Ryan è venuto a trovarmi, mi ha offerto un cameo nel film, ho accettato anche perché si girava a Detroit ed ero curiosa di conoscere la città. Prima delle riprese mi mandava continuamente e-mail – ‘Devi sognarlo, il personaggio, conviverci, sentirlo tuo’ –, e gli rispondevo che ci pensavo continuamente, anche che lo avevo sognato, ma non era vero. Arrivo sul set e mi rendo conto che tutto quello che avevo pensato e preparato non serviva, era inutile: il personaggio era cambiato, da una vecchia attrice ossessionata dai film che aveva fatto era diventato una nonna ossessionata dai mariti che aveva avuto. Ma soprattutto Ryan ha chiesto a tutti noi di non cambiare mai espressione: abbiamo recitato come nel teatro kabuki. Cosa che forse va bene per lui, che nei suoi film in genere è circondato di nemici cattivi, ma non so se sia giusto per tutto un cast. Comunque […] mi ha promesso che scriverà un grande ruolo tutto per me». «Oggi si dedica alla pittura e alla meditazione, nella sua casa di Los Angeles» (Ermini). «Sto scrivendo le mie memorie per un’autobiografia. Non so cosa verrà fuori: per ora è come un flusso di coscienza, metto nero su bianco quello che ricordo, e così lo rivivo. Non so rileggendolo cosa scoprirò di me e del tempo che ho vissuto» • Un figlio, Jonathan Jackson Poe (1971), da James Poe (1921-1980), suo marito dal 1969 al 1978. «Circa le sue frequentazioni con l’horror e la letteratura gotica, chiude con una boutade: “Che dire? Ho sposato un uomo che di cognome si chiamava Poe…!”» (Giuseppe Condorelli) • «Bruna, grandi occhi verdi espressivi, fascino sensuale» (Gianni Canova). «La lunga chioma nera e gli occhi verdi velati di ambiguità, terrore e inquietudine: il volto di Barbara Steele, disturbante e sensuale in egual misura» (Ermini). «È l’unica ragazza nei film le cui palpebre possono ringhiare» (Raymond Durgnat). «Fascino altero, esotico e dark al tempo stesso, che contribuiva a spiazzare lo spettatore, con quello sguardo lievemente obliquo, sospeso tra bene e male, soavità e terrore, vita e morte» (Fabrizio Dividi). «Era e rimane una delle creature più misteriose dello schermo. Ancora oggi la vera “Signora della notte”» (Emanuela Martini) • «La parte in Italia della mia carriera e della vita è stata la migliore. Roma all’epoca era un’esplosione di creatività e vitalità: la Dolce vita. Nei caffè si parlava, si incontravano sceneggiatori, scrittori, registi, attori. E i film si facevano in fretta. Un mese e via. Se c’è una cosa che odio dei set sono le attese, i vuoti. Invece allora bruciavamo tutto nell’energia di portare a casa il film, tutto d’un fiato. Con creatività e maestria artigianale. […] Sono stata felice qui. Vivevo in via del Babuino, conoscevo tanti pittori straordinari. E ricordo l’amicizia con Pier Paolo Pasolini e Laura Betti. Quella per me era una famiglia. […] Il momento peggiore della mia vita è stato quando ho dovuto lasciare l’Italia per gli Stati Uniti. Qui tutto era autentico, sul set e fuori, nella vita vera. Lì era tutto finto, costruito» • «Con quale regista si è sentita più in sintonia? “Con Riccardo Freda. Era un regista quasi ‘operistico’ e lo comprendevo nel profondo. Ma anche con Federico Fellini. Anche questo può sembrare un cliché, ma era incredibile. Era un vero mago, ma soprattutto amava tutti. Potevi essere l’ultima delle comparse, costretta a girare al freddo e alle 3 di notte, ma lui comunque ti portava un fiore. Tutti si sentivano parte di qualcosa. Ho recitato in 8 ½ e posso dire che, nonostante la superficie gioiosa, ho impiegato anni a comprendere quanto fosse un film intriso di malinconia”» (Ermini). «Federico Fellini aveva questo contatto unico, molto personale, con gli attori e gli amici. Abbiamo continuato ad avere sempre una stretta amicizia anche quando sono andata via dall’Italia. Era un uomo notturno, amava camminare per Roma di notte e mi invitava ad andare con lui. Mentre dormivo, alle quattro del mattino squillava il telefono ed era lui. Ricordo la passeggiata notturna sull’Appia Antica, in mezzo alle prostitute, dove lui era incantato da tutto questo. Mi scriveva lettere con poesie e molti colori, davvero unico e gentile. […] Tra l’altro, se durante le passeggiate notturne vedeva un barbone che aveva freddo, gli dava la sua sciarpa» • «Io penso che i film muti come Nosferatu il vampiro siano stati quelli maggiormente in grado di capire e rappresentare la paura, capaci di colpire l’inconscio della gente» • «I film horror seguono sempre uno stesso schema, e nella mia carriera mi sono trovata a interpretare ruoli del bene e del male. Devo dire, però, che mi sono sempre trovata meglio nella parte del male» • «Le davano fastidio le sedute di trucco per gli effetti horror? “No. L’unica cosa che mi metteva una certa ansia erano tutte quelle scene che ho dovuto girare nei cimiteri. Mi mettevano lì nel brusio delle riprese e io mi sentivo a disagio perché sapevo che sotto c’erano uomini e donne che erano morti davvero, e questo mi inquietava molto. Troppi cimiteri, sì”» (Arianna Finos) • «Crede che, in qualche modo, l’horror abbia limitato la sua carriera d’attrice? “Sì, è un destino ‘tragico’, soprattutto se esordisci con il tuo primo vero ruolo in un film come La maschera del demonio di Mario Bava. Sei vista attraverso quella lente per il resto della tua vita. Non sono mai riuscita a interpretare commedie o altro. Sei considerata ‘il mostro della notte’, quando in realtà, come nel mio caso, vorresti provare a essere anche Medea. Non ho rimpianti, però, specialmente perché ho fatto cinema in un’epoca in cui era possibile avere una parte anche durante un pranzo in trattoria. La vita dovrebbe essere così, specialmente per noi artisti”» (Ermini) • «C’è qualche rimpianto, qualche film che non avrebbe voluto fare, qualche brutta esperienza? “In America ho fatto una serie tv con un regista a cui interessava solo l’inquadratura: era duro, ci trattava malissimo e metà del cast piangeva, compresi gli uomini. Dopo tre settimane, decisi di andarmene: mollai la Paramount. Fu il momento più bello della mia carriera, e loro stavano impazzendo”. […] Come regista cosa avrebbe voluto dirigere? “Avrei voluto fare Medea, una donna consumata dall’ossessione, dall’amore, tanto da ammazzare i suoi figli. Ho visto Medea di Pasolini, bellissimo film. Devo dire che adoravo Pasolini”» (Paternò) • «Un famoso serial killer mi ha chiesto dal carcere una foto autografata de La maschera del demonio. Non gliel’ho mandata, e mi sento un po’ in colpa».