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 2022  gennaio 07 Venerdì calendario

Le spie si scopromo al cinema

Per secoli e millenni, fin dalla fondazione del mondo, le spie hanno lavorato nell’ombra, indossando maschere, vivendo sottotraccia, trafficando in informazioni e disinformazioni, tradendo, infiltrando, frugando nei cassetti e nei cestini della carta straccia. Esecrate dai nemici, erano debolmente (anzi per niente) difese dai loro stessi mandanti, che «in caso di cattura» negavano di conoscerle, come sa chiunque abbia letto anche un solo Segretissimo.

Doppie, evasive, umanamente scivolose, le spie non erano disprezzate soltanto quando lavoravano per soldi (o perché sotto ricatto da parte di chi aveva avuto acceso al loro armadio e l’aveva trovato pieno di scheletri). Erano la faccia dispari dell’eroismo persino quando agivano disinteressatamente, per amor di patria, da militi ignoti, canticchiando (mentalmente, per non tradirsi) l’inno nazionale. Spiare non era affare da gentiluomini, tranne che nella vecchia Inghilterra, naturalmente, dove nei ranghi dell’Intelligence veniva arruolata soltanto la crème de la crème dell’aristocrazia e dell’intellighenzia nazionale (così, almeno, raccontavano i servizi segreti di Sua Maestà, gli stessi che, secondo Alberto Arbasino, ci avevano fatto credere, profittando di James Bond, che alle spie inglesi piacessero le donne).

Ladri, bugiardi e spie, si diceva, biasimandoli. Erano la feccia della ragion di Stato, come recitava la filastrocca: «Chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù». Sembrava un giudizio definitivo. Rare le eccezioni: la Primula Rossa, Kim, pochi altri. Ma ci fu un contrordine improvviso ed eccoli trasformarsi d’un tratto in superstar.
Cinema, letteratura alta e bassa, fumetti, televisione, ma soprattutto cinema, e fin dalle sue lontane origini nei primi anni del secolo scorso, come racconta Giancarlo Zappoli nei tre preziosi volumi del suo Ciak! Si spia, una storia riccamente (ed efficacemente) illustrata delle spie cinematografiche, da The Nihilist (un film del 1905 con bombe, anarchici e infami sbirri zaristi a piè di lista) alle missioni impossibili di Tom Cruise.
Da «spie» che erano, dove spia stava per mascalzone, erano diventati «agenti segreti», una definizione assai meno compromettente, anzi praticamente un titolo nobiliare, un cavalierato. Non erano più furtivi. Si esibivano, anzi, e talvolta (Dio li perdoni) persino sculettavano al centro della scena, fuori dall’ombra, in piena luce, sotto i riflettori. Indossavano eleganti trench dal bavero sollevato, oppure emergevano come Veneri dalle onde in tuta da sub e la fiòcina pronta all’uso, avevano le tasche piene di strabilianti aggeggi elettronici, bevevano Martini «agitati, non mescolati», portavano lo smoking come se ci fossero nati dentro, salvavano la vita a donne bellissime e riconoscenti.

Nessuno, almeno fino all’avvento dei supereroi, era mai stato più glamour dell’agente segreto: di Sean Connery quando gioca a golf o baccarat; di Robert Redford quando veste i panni del Condor oppure quelli di Nathan Muir, il masterspy a un passo dalla pensione di Spy Game; o di Matt Damon nella parte di Jason Bourne, il superkiller della Cia che ha perso la memoria per troppo stress. Un attimo prima le barbe finte sono farabutti e tipi loschi; un attimo dopo sono diventati trendy, à la mode, e tutti li vorrebbero imitare nel look e nel kung fu.
È il cinema, come racconta Zappoli, a spiegare questo salto quantico dalle stalle alle stelle – dall’inferno della diplomazia alle suite dei grandi alberghi di Dubai o della Riviera, dove gli agenti segreti versano coppe di champagne a donne burrose e crudeli un attimo dopo aver fatto volare dalla finestra i loffi a libro paga dei servizi avversari. Secolo disgraziato, in balìa di regimi politici mostruosi e delle tempeste d’acciaio che prima li hanno prodotti e che poi ne conseguono, il Novecento ha un disperato bisogno d’eroi, più di qualsiasi altra età del mondo.

Alcuni scrittori (John Buchan, Sax Rohmer, W. Somerset Maugham, Graham Greene, Edgar Wallace, Eric Ambler, Leslie Charteris) posero le basi del mito prima e dopo la Grande guerra. Furono seguiti una generazione più tardi da Ian Fleming, Jean Bruce, John Le Carré, Len Deighton, Robert Ludlum, Frederick Forsyth, che consolidarono e amplificarono il mito, subito fissato dal cinema, nell’esaltazione prima del bianco e nero (per esempio i film firmati da Fritz Lang, come Maschere e pugnali, e nei primi classici d’Alfred Hitchcock, da La signora scompare a Notorius) e poi nelle tinte allucinate e acide del technicolor (come di nuovo nei film di Hitchcock girati negli anni cinquanta e oltre: L’uomo che sapeva troppo, Il sipario strappato, Intrigo Internazionale, Topaz).
All’inizio l’agente segreto cinematografico nuovo modello è un eroe realistico, senza abilità da ninja e destrezze da rubacuori. Come nei romanzi di Eric Ambler – da cui sono tratti film straordinari, da Prigioniero della paura (Roy Ward Baker, 1947) a Terrore sul Mar Nero (Norman Foster e Orson Welles, 1943) e La maschera di Dimitrios (Jean Negulesco, 1944) – l’eroe capita per caso nell’intrigo o vi è coinvolto da qualche sinistro burattinaio. Ma la spia presto s’emancipa da questa sua condizione di passante innocente preso nella rete. Diventa una spia di mestiere, uno 007, un OSS 117, nei casi migliori un George Smiley – grassoccio e umile, ma un Napoleone dello spionaggio – che stana le talpe e guerreggia contro Karla, lo spietato stratega del Kgb. Intorno divampa la guerra fredda. Rivoluzioni e controrivoluzioni, batterie di missili atomici, ovunque infiltrati e cattivi un po’ da fumetto, tipo Goldfinger e il Dottor No. Non gli eroi più realistici ma quelli più iperbolici e fumettistici incarnano la perfetta rappresentazione metaforica del Novecento. È il cinema a tinte forti, pompato e sopra le righe, di cui potete seguire l’evoluzione nel grande e importante libro di Giancarlo Zappoli, a illustrare (senza esagerarli, badate) gli eccessi e le dismisure del nostro tempo.