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 2022  gennaio 07 Venerdì calendario

Marie-Esméralda del Belgio contro Leopoldo II: «La statua va abbattuta»


Dal suo bell’appartamento londinese, torna a far parlare di sé la 65enne principessa Marie-Esméralda del Belgio, zia dell’attuale re Filippo, e oggi opinionista a tempo perso del Brussels Times (un bimestrale rivolto agli expat). Stavolta non c’entra il regale piglio con cui si scagliò nel 2019 contro il riscaldamento globale: quando si era fatta arrestare a Londra in un sit-in con il movimento per il clima ExtinctionRebellion. Oggi se la prende con la sua famiglia, tacciata di non aver fatto abbastanza per farsi perdonare le atrocità coloniali dei secoli scorsi in Congo. Vuole quindi, lei, assumersi la «grande responsabilità» nell’unirsi «al crescente numero di belgi che stanno infrangendo il tabù». Quale? Quello sempre più di tendenza della rimozione delle statue in nome di un antirazzismo iconoclasta.
Non mercanti di schiavi, generali sudisti o sindaci sceriffi. Nel caso belga, il mirino della Cancel culture punta su Leopoldo II, già vandalizzato in un parco di Ixelles. E su altre statue che «glorificano i suprematisti bianchi che hanno seminato la morte», scrive Esméralda.
Da attivista per il clima a paladina della controversa battaglia che a varie latitudini, da New York a Parigi fino a Londra, ha già visto cadere statue di Cristoforo Colombo, Napoleone, Winston Churchill, sfregiate e in alcuni casi barbaramente abbattute, la principessa parla di atti di «rabbia comprensibile». E accusa direttamente i reali di non aver rimosso le opere che esaltano il sovrano che regnò dal 1865 al 1909. Chi non rinnega il monarca è un razzista.
Vero è che Leopoldo II aveva di fatto trasformato il Paese africano grande 77 volte il Belgio in una sorta di proprietà privata. «Era anche il mio prozio», scrive Esméralda per rinforzare l’invito a cancellare Leopoldo II dalle strade di Bruxelles (Anversa lo ha già fatto): e che il monito venga dall’interno dei reali ne amplifica il messaggio.
A chiedere di togliere tutte le statue di Leopoldo II dallo spazio pubblico è anche Pierre Kompany, diventato nel 2018 il primo sindaco nero del Paese: «Avrebbero dovuto essere rimosse molto tempo fa, prima delle proteste di Black Lives Matter», ha scritto puntando i radar sulla grandiosa statua del monarca a cavallo accanto al Palazzo Reale di Bruxelles. «Come pensate si sentano i belgi di origine congolese?». Ma il principe Laurent «non vede» proprio come Leopoldo II possa «far soffrire le persone» in Congo.
Il dibattito è aperto. Esmeralda chiede pure «la fine della propaganda». Di riconsiderare cioè le lezioni di storia su quel periodo, risarcendo il Congo dopo scuse formali. «Dobbiamo insegnare a scuola che la ricchezza e i grandi edifici del Belgio sono stati finanziati dalla vendita di avorio, caucciù e dal saccheggio del legno» scrive chiedendo al governo di fare autocritica sul colonialismo. Proprio mentre in prestigiose università d’Europa, da Oxford a Science Po, cresce la tendenza a imporre la censura, favorendo forme di ostracismo verso chi non si adegua alla «cultura della cancellazione» soprattutto in Francia.
Sul Figaro, appena tre giorni fa, otto studenti iscritti in diverse accademie dell’Esagono hanno lanciato «un’allarme sui pericoli della Cancel culture di un’enclave intellettuale fuori dal mondo che vuol dettare legge su tutto». Ripercorrendo i casi più recenti, i laureandi spiegano che in Francia «chiunque si rifiuti di sottomettersi ai dogmi decolonialisti, filo-Lgbt e anti-sessisti viene insultato e redarguito» quando non sospeso dall’insegnamento. Poi il monito: «Le derive che osserviamo all’interno delle Science Po di Francia si diffonderanno presto dappertutto». La brama di cancellare le tracce di un certo passato sembra aver già contagiato il Belgio. Se re Filippo, in occasione dei 60 anni dell’indipendenza del Congo, ha espresso «dispiacere» per le ferite africane, ed è stata creata anche una commissione parlamentare ad hoc sull’inglorioso Leopoldo II, Esméralda trancia di netto la diplomazia: «Passi importanti, ma non bastano». Meglio «decolonizzare» strade e piazze assecondando la furia del politically correct.