La Stampa, 7 gennaio 2022
Ritorno all’Urss
Un gruppo di studenti, incitati da elementi nazionalisti, è sceso nelle vie di Almaty manifestando la loro disapprovazione... Vandali, parassiti e altre persone antisociali hanno approfittato della situazione per azioni illegali contro i rappresentanti della legge e dell’ordine. Hanno dato fuoco a un negozio di alimentari e ad automobili private, e insultato i cittadini...». Questo dispaccio della agenzia ufficiale Tass non è stato scritto ieri, è stato battuto il 17 dicembre 1986, quando sulla piazza centrale di Almaty – oggi intitolata alla Repubblica, allora portava il nome di Leonid Brezhnev – scoppiò la prima protesta di piazza della Perestroika, contro la nomina di un capo russo che non aveva mai messo piede in Kazakhstan. La manifestazione venne repressa con la forza: un numero tuttora sconosciuto di morti, centinaia di feriti, migliaia di arrestati.
La Glasnost era agli esordi, e della protesta si parlò pochissimo. Oggi, in Russia non se la ricordano in molti, ma in Kazakhstan viene celebrata come il Zheltoksan, la rivolta di dicembre, l’evento fondante dell’indipendenza. Fu la prima rivolta di una colonia contro Mosca, che inviò un commissario russo in una repubblica di lingua, etnia, storia e religione diversa, per bloccare l’ascesa proprio di quel Nursultan Nazarbaev che sarebbe diventato il “padre della nazione”. Fu il primo di una serie di errori di Mikhail Gorbaciov nel sottovalutare il desiderio di autonomia delle province, e nel sopravvalutare la tenuta del melting pot sovietico, che portò al collasso dell’Urss cinque anni dopo.
Ora a Mosca si esulta per l’invio di soldati russi a domare la rivolta, e la responsabile del canale RT Margarita Simonyan, twitta entusiasta le condizioni del ritorno del Kazakhstan all’ovile: ritorno all’alfabeto cirillico e alla russificazione totale, riconoscimento della Crimea annessa dall’Ucraina e politica estera “fraterna”. Prende in giro «l’indipendenza ridicola» del Kazakhstan ed estende il monito a «tutti gli altri quattordici», cioè tutti gli Stati ex sovietici, inclusi i tre Baltici ormai entrati nell’Ue. Può essere una provocazione per attirare like, ma espressa dalla influente responsabile della propaganda statale russa esprime un umore di rivalsa presente al Cremlino. Come lo esprime Aleksandr Lukashenko, che ieri ha dichiarato che «il Kazakhstan non si poteva dare via, regalare alla Nato, come l’Ucraina», come se fosse un oggetto. Come lo esprime il deputato putiniano Biysultan Khamzaev, che propone alla Duma un referendum per annettere il Kazakhstan alla Russia, e i social pieni di video dei parà russi che promettono di «fottere i kazaki». È l’esultanza di chi non ha imparato nulla, e se Vladimir Putin considera la fine dell’Urss una «catastrofe geopolitica», per una sua ipotetica rifondazione i propagandisti moscoviti propongono un colonialismo suprematista russo nemmeno più abbellito dall’internazionalismo proletario dei comunisti.
Tokaev ha rotto un tabù inviolabile per 30 anni di indipendenza: non chiamare in soccorso i russi. Fu il grande errore di calcolo commesso da Putin nel 2014 nell’Est ucraino, dove gli alleati dell’ex presidente Viktor Yanukovich non hanno accettato le offerte di aiuto del Cremlino, costringendolo a importare i capi dei “ribelli del Donbass” da Mosca. Un semplice calcolo di rischio e beneficio: la storia del Patto di Varsavia, l’unica alleanza militare che ha attaccato soltanto i propri membri, insegna che i tank di Mosca sono poi recalcitranti a tornare a casa, e perfino Lukashenko non li ha (finora) mai invitati.
Non è ancora chiaro quale pericolo è stato considerato da Tokaev talmente enorme da firmare una cambiale imperiale con Putin. Però ha appena dimostrato di non avere una presa forte sul proprio Paese, governato da un’élite con legami internazionali “multivettoriali” e abitato da un popolo che non ha manifestato alcuna nostalgia. La propaganda putiniana sogna una nuova Urss, ma ricostruire un nuovo impero con un gruppo di dittatori in preda a una crisi di nervi non sarà facile. —