La Stampa, 7 gennaio 2022
I 15 anni dell’iPhone
Da domani, nessuno guarderà i telefoni nello stesso modo”. Così, il 9 gennaio del 2007, quindici anni fa (in ere digitali quanto fa, un secolo?), Steve Jobs, che era già Steve Jobs e quindi genio magro e tetro, parlava dell’iPhone, il «primo smartphone moderno», che sarebbe arrivato sul mercato pochi mesi dopo, il 29 giugno dello stesso anno, nell’estate in cui cominciò a diventare chiaro che la crisi dei mutui subprime avrebbe trasfigurato il capitalismo, stravolto il potere d’acquisto delle famiglie, rimpolpato la discussione sul tramonto dell’Occidente fornendone la prova più eclatante.Degli impoveriti gravi, quasi nessuno, in Occidente, in questi 15 anni, ha rinunciato all’iPhone, e di questo abbiamo dibattuto a lungo, costruendoci occasioni di catechesi ed espiazione. Nell’iconografia del nuovo mondo, quello dell’epurazione del Novecento, uno spazio di grande rilevanza lo occupano le immagini di centinaia di persone che, per accaparrarsene uno, s’assiepavano di notte davanti agli Apple Store, e poi ci si fiondavano dentro, con il coltello tra i denti, prendendosi a pugni, calci, parolacce. La stessa scena, ma sempre più estrema, ogni volta che usciva una nuova versione dell’iPhone: 3G, poi 4, poi 5, 6, 7, e così via, uno all’anno, fino al 13, ogni volta con una funzione in più, o un perfezionamento del sistema operativo, o un potenziamento della fotocamera senza i quali la Apple è stata piuttosto brava, fino almeno a un lustro fa, a convincerci che saremmo rimasti indietro, ci saremmo opacizzati e infragiliti come manoscritti.L’iPhone abbiamo trovato il modo di permettercelo tutti: ricchi, poveri, mediani, eterosessuali, bianchi, neri, occidentali, orientali, terroristi islamici (sì, pure loro, anzi soprattutto: l’Isis ha girato e diffuso i suoi orripilanti video con gli iPhone), nativi e pensionati digitali.E continueremo a farlo, anche se abbiamo tutti subito le sue disfunzioni, le sue debolezze, quel maledetto schermo di cristallo che non va mai in pezzi però si frantuma, e sembra un lago ghiacciato quando comincia a creparsi prima di sciogliersi. E la ragione non è quella scialba e didascalica che Jobs disse quindici anni fa: «Questo oggetto porterà a un’incredibile sintesi di comunicazione, video, musica e computer». E nemmeno si esaurisce in quella i davanti a Phone, la sola i minuscola del I che in inglese sta per io ed esige la maiuscola, e che la Apple ha fatto abbassare davanti alla parola telefono, così descrivendo un movimento che, ora che sono passati quindici anni, ci è chiaro: nella fusione tra uomo e macchina che sembrava destinata a diventare il capitolo evoluzionistico del nostro tempo prima che il Covid scombinasse tutto, l’elemento assorbente e predominante è la macchina, non l’uomo. iPhone non significa ioTelefono, non è un’azione: è la ricetta di una sintesi.All’iPhone non rinunciamo per il motivo più banale del mondo: è un oggetto meraviglioso, bello, cool. Adesso sappiamo che è un telefono, ma quindici anni fa no: era un rettangolo buio e indecifrabile e ci chiedevamo come avremmo potuto fare a comandare una cosa senza comandi, senza tasti, senza antenne. Era disorientante e, per questo, ammaliante.Dicemmo che assomigliava al monolito di 2001 Odissea nello Spazio, credemmo che non si sarebbe mai illuminato, che si sarebbe mosso da solo, che lo avremmo manovrato con la forza del pensiero. Dicemmo che era un buco nero – e non immaginavamo che, tredici anni dopo, ci saremmo trovati a guardare, proprio sui nostri iPhone, la prima foto di un buco nero – o almeno così ci venne erroneamente propinata.L’iPhone era, è l’orizzonte degli eventi, cioè «la superficie-limite oltre la quale nessun evento può influenzare un osservatore esterno».L’iPhone è la superficie liscia delle cose e infatti in pandemia è stato l’oggetto più facile da disinfettare e anche il nostro miglior alleato e salvatore, quello che ci ha mantenuti connessi al mondo fuori, permettendoci di fare le cose che prima, quando eravamo liberi e sani, deprecavamo e invece, poi, ci hanno salvato la vita: dire ti amo, scrivendolo; fare l’amore insieme a qualcuno senza toccarlo; parlarci con i disegni; starci vicini tenendoci lontani; farci credere che Mr Jobs era un benefattore, anziché un maniaco che ci ha chiusi in una casa digitale molto prima del virus, levandoci la voglia di parlare ma infuocando quella di inventare, di sentirci capi e di dire che la democrazia fa schifo