la Repubblica, 7 gennaio 2022
Eco, troppo ironico per essere “venerato maestro”
Che la vita di un intellettuale preveda almeno tre fasi distinte il caso individuale di Umberto Eco non lo confuta. Smentisce casomai che tali fasi corrispondano sempre a quelle descritte da Alberto Arbasino in un famoso aforisma. Giovane promessa Eco infatti non lo fu mai: a ventiquattro anni ricopriva già posti di responsabilità, ottenuti per concorso e merito. Venerato maestro, neppure, essendogli aumentata con l’età la già cospicua diffidenza per gli onori e le devozioni di maniera. La fase centrale sarebbe stata quella del “solito stronzo”: ma anche chi, ahilui, dovesse concordare con il sostantivo non potrà che ammettere che “solito” Eco non lo fu proprio mai.
I novant’anni dalla nascita di Eco danno ugualmente l’occasione per una tripartizione più o meno regolare della sua carriera. Nei primi trent’anni, formazione (conclusa con la laurea in estetica e tomismo e l’apostasia dalla fede cristiana) e subito impegni di alto livello su più fronti: il lavoro nell’industria culturale (Rai e casa editrice Bompiani), i primi studi sulle comunicazioni di massa e l’estetica contemporanea, i primi interventi sui giornali, da opinionista, da divulgatore ma anche da umorista.
Molto tempo dopo, a Domenico Porzio che gli chiedeva il segreto del suo successo, Eco non diede una risposta di maniera: «Non accettare mai posti da caporale». È stato proprio evitando mansioni e prebende di seconda e terza fila che, anziché evolversi in uno stronzo come tanti, Eco fu tra coloro che nel trentennio successivo (dai Sessanta agli Ottanta) più animarono e svecchiarono la scena culturale italiana. Avanguardia (non solo letteraria) con il Gruppo 63; fabbricazione di “chiavi” perfettamente funzionanti per la comprensione del presente; (“l’opera aperta”, “la guerriglia semiologica”, “apocalittici e integrati”, “Paleo tv e neo tv”); fondazione della semiotica, assieme a Roland Barthes, Roman Jakobson, Algirdas Greimas e altri; partecipazione all’epica vicenda interdisciplinare e antiaccademica del Dams; sfondamento dei botteghini librari coi suoi primi due bestseller narrativi. Raggiunta la massima autorevolezza accademica, editoriale e pubblicistica, nel suo ultimo trentennio Eco avrebbe potuto accettare una delle tante offerte di posti più o meno istituzionali, da ministro, sindaco o presidente Rai. Poteva altrimenti installarsi in un buen retiro qualsiasi, una sinecura accademica di lusso da cui promulgare di tanto in tanto un libro di ricordi, uno studio erudito, una solenne trombonata moralistica. Ha invece scelto di continuare a fare quel che lo divertiva, e nel modo che più lo divertiva: il professore, innanzitutto; il teorico che rivede anche robustamente le sue posizioni giovanili; l’editor di strenne colte e bellissime; il commentatore arguto e imprevedibile.
Il suo ultimo lavoro fu per la prestigiosa Library of Living Philosopher: scrisse un’autobiografia intellettuale e intervenne sui saggi che autorevoli colleghi avevano dedicato alla sua semiotica. Una consacrazione ma, assieme, l’ennesima rimessa in discussione di sé stesso.
A chi gli chiedeva il segreto del suo successo rispose semplicemente: “Non accettare mai posti da caporale”