Corriere della Sera, 7 gennaio 2022
La Libia rischia la spartizione
Dopo un lungo e sofisticato gioco tattico, per evitare di assumersene la responsabilità, le elezioni in Libia non si sono svolte. E ad oggi anche l’ipotizzato “rinvio tecnico” al 24 gennaio appare difficilmente realizzabile.
D’altro canto, lo stesso parlamento nel motivare il mancato rispetto della data del voto ha molto insistito su incombenti minacce terroristiche. Uscendo da un quadro più propriamente politico-congiunturale per dare, invece, una motivazione più “strutturale” alla impossibilità di esercizio del voto. Eppure, quelle elezioni, quella data del 24 dicembre, rappresentavano tanto per la Libia. L’idea era quella di un governo forte e autorevole, legittimato dal consenso popolare, che potesse affrontare sfide durissime. Dalla pandemia alla ricostruzione del Paese passando per la fuoriuscita dal territorio libico di eserciti e mercenari stranieri. Una sorta di nuovo inizio. Non a caso era stato scelto, volutamente, il 24 dicembre che ne ricordava un altro: quello del 1951. L’anno della indipendenza. Si voleva, in qualche modo, evocare l’idea di un Paese che riprendeva nelle proprie mani il suo destino liberandosi dalle tutele e dalle ingerenze esterne. Quel voto non c’è stato.
Nessuno può dire oggi se e quando ci sarà. Un colpo durissimo. Alla fine, sembra, quasi, avere prevalso quella sorta di sortilegio che, dopo l’elezione del giugno 2014, ha visto, più volte, fissare elezioni per poi sistematicamente rinviarle. Sembra ma non è così. C’è stato, in questi anni, un cambiamento radicale: la presenza sul terreno di Turchia e Russia. Due protagonisti importanti e ingombranti che agendo di intesa o in contrasto con gli altri attori regionali risultano sempre più decisivi. A ciò ha corrisposto un costante logoramento delle istituzioni multilaterali.
Icasticamente segnato dalle due, consecutive, dimissioni degli inviati speciali delle Nazioni Unite: Salamé e Kubis.
In questo quadro, minimizzare sarebbe pericoloso al limite della irresponsabilità. A maggior ragione nel momento in cui all’orizzonte delle elezioni sembra, progressivamente, sostituirsi o sovrapporsi il tema di un nuovo governo che prenda il posto di quello attuale il cui mandato è formalmente cessato il 24 dicembre. Dentro questo scenario vanno collocate le recenti iniziative, da Bengasi al Cairo al Marocco. Così come vanno lette le tensioni tra le milizie a Tripoli. Gli spostamenti di alcune di esse da Misurata alla capitale. C’è il rischio di nuove rotture. Con il primo ministro Dbeibah che non ha alcuna intenzione di uscire di scena e con gli altri protagonisti da Haftar a Bashagha, da Majitig ad Aguila Saleh, che considerano il mandato dell’attuale governo di unità nazionale irrimediabilmente consumato. Un nuovo governo senza la forza, in tempi ravvicinati, di un mandato popolare sarebbe debole ed esposto a condizionamenti interni ed esterni. Se poi, per ipotesi, i governi diventassero due, a disputarsi la legittimità e a contendersi il territorio, la china rischierebbe di diventare pericolosissima. Si scivolerebbe, di fatto, nel peggiore scenario possibile. Quello della divisione della Libia in zone d’influenza. Una, la Tripolitania, turco-qatarina. L’altra, la Cirenaica inclusa una parte significativa del Fezzan, russo-egiziano-emiratina. Lo spettro della spartizione. Mai esplicitamente evocata, mai esclusa. Con la drammatica illusione della “forzata stabilità” garantita dall’esterno. Sarebbe una catastrofe strategica non solo per l’Italia ma per l’Europa tutta.
Consegnare una definitiva influenza in Libia a due potenze “orientali”, così diverse ed eppure così simili, costituirebbe un imponente cambiamento dei rapporti di forza nel Mediterraneo centrale. Un’area cruciale per il governo dei flussi migratori, per gli approvvigionamenti energetici, per la lotta contro il terrorismo, per la sicurezza sanitaria. Proprio per questo l’Europa non può più aspettare. C’è bisogno di una vera iniziativa. Forte e univoca. È evidente che il format delle conferenze internazionali da Berlino a Parigi non basta.
Ci vuole di più. Un diretto protagonismo di un grande continente che, dentro una condivisione strategica con gli Usa, si assuma la responsabilità di iniziative politico-diplomatiche tese a garantire la stabilità e la sicurezza nel Mediterraneo. Dal Sahel al Corno d’Africa, dalla Libia al Libano, dalla Tunisia all’Algeria. Situazioni molte diverse ma quasi un’unica linea di faglia che può far scattare un gigantesco effetto domino. Questa è la sfida del 2022. L’Europa ha la sensibilità e la forza per affrontarla. La presidenza della Francia, di un Paese, insieme, profondamente europeo e mediterraneo, può dare una nuova consapevolezza. All’inizio di un nuovo anno, solitamente, anche i propositi più ambiziosi appaiono possibili.