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 2022  gennaio 07 Venerdì calendario

Intervista a Anna Galiena

C ome attrice, la prima apparizione, è proprio il caso di dirlo, l’ha vissuta nel ruolo della Madonna. «Della Madonnnina – precisa Anna Galiena —. Più che apparizione divina è stato l’inizio della mia lunga dannazione... Non avevo ancora compiuto 4 anni e, dato che la mia famiglia si stava allargando a vista d’occhio, visto che dopo di me sono nati altri quattro, tra fratelli e sorelle, pure essendo una famiglia laica, vengo mandata dalle suore. Non avevo intenzione di salire sul palco ma fui scelta per le recite scolastiche proprio per interpretare il sommo personaggio... Chissà perché mi scelsero: ero bionda e con i capelli ricci, infatti mi misero una parrucca castana con i capelli che scendevano fino alla vita. Inoltre ero una ribelle e non gradivo molto l’atmosfera mistica dell’istituto religioso. Ma devo essere riuscita ad assumere un’aria ispirata, con le mani giunte, lo sguardo rivolto al cielo, perché fui molto osannata, e da lì in avanti mi trovai al centro di una serie di piacevoli, graditissimi privilegi».
Insomma, ha iniziato la carriera attoriale molto in «alto» e per di più in un convento?
«Non sognavo di fare l’attrice, la mia passione era la danza. A 8 anni ero alla scuola di danza classica al Teatro dell’Opera di Roma, felice di ballare e cantare. Ma a un certo punto mio padre decise che dovevo iscrivermi al liceo classico, studiare greco, latino e dare il via al percorso che mi avrebbe portato all’università, quindi a un lavoro sicuro da dirigente pubblica».
Ne fu dispiaciuta o accettò serenamente l’imposizione paterna?
«Dispiaciuta? Disperata. Piangevo in continuazione, chiusa in camera, ripiegata su me stessa. Circondata da una libreria piena di volumi, cominciai a gustare il piacere di leggere. Ma quello stato di clausura, troppo intellettualizzata, mi causò un problema: iniziai a balbettare. Quando mi veniva chiesto qualcosa, mi imputavo su certe sillabe... problema non facile da risolvere, ma pian piano imparai a governarlo».
In che modo?
«Quando dovevo dire qualche cosa parlavo velocissima, così non si capiva niente di quello che dicevo e nessuno si accorgeva del balbettio. È un problema che, in certi momenti, ho tuttora. Infatti quando affronto un nuovo testo da recitare me lo studio attentamente, gestisco la dizione, segno le trappole dove posso inciampare».
Come arrivò all’Actors Studio?
«Io sarei scappata da casa molto presto, ho sempre amato girare il mondo zaino in spalla, ma mio padre, severo, diceva: se te ne vai di casa, ti mando appresso la polizia. Quando ho finalmente raggiunto la maggiore età, che all’epoca era 21 anni, me ne sono potuta andare senza essere inseguita dalle forze dell’ordine. Perché l’Actors Studio? Non ho mai voluto studiare in accademie italiane, le ho sempre considerate troppo finte, dirette da tromboni... Il vero mito, per una che voleva intraprendere una carriera artistica, non poteva che essere Lee Strasberg, e tutti coloro che si erano formati con lui».
In che modo si presentò al provino?
«Arrivai terrorizzata, assieme ad altri giovani aspiranti attori. Mi ero preparata una scena tratta da un testo di drammaturgia moderna americana, dove impersonavo una ragazza destinata a suicidarsi. Nella platea del piccolo teatro ricavato da una chiesa sconsacrata, dove dovevamo esibirci, sapevamo che erano presenti personaggi come De Niro, Penn, Hoffman... già membri del laboratorio. Non potevamo vederli, perché erano nascosti da teli neri. Sono sempre stata portata a rischiare, ma per la paura mi mancava il fiato, quindi parlavo con un filo di voce, pianissimo. Ed ecco che quegli speciali spettatori, non li vedevo ma c’erano, ammutoliscono: si crea un silenzio tombale, provocato dalla mia recitazione sottovoce. Insomma, ho rischiato di fare una figuraccia e invece ne è scaturita una interpretazione molto vera, profonda... Fui accettata all’unanimità e diventai membro dell’Actors Studio. Mi pare che, come attrici italiane, siamo solo io e Francesca De Sapio. Una bella soddisfazione...».
Che tipi erano i vari De Niro, Hoffman, Pacino... conosciuti così da vicino?
«Dustin simpaticissimo, calorosissimo, curiosissimo, ha sempre avuto un’autentica passione per l’Italia e gli italiani, tante volte abbiamo chiacchierato a lungo. Bob me lo ricordo come un gran filone...».
Cioè, uno che ci provava?
«Le ragazze gli piacevano: era un gatto sornione, si muoveva lentamente, ti fissava. Si capiva che era sicuro di sé. Al, invece, tutto il contrario: si muoveva a scatti, un tipo nervoso, direi nevrotico, forse caratterialmente più insicuro. Poi ricordo Elia Kazan, una leggenda ma anche un vero despota, un uomo senza pietà: se doveva raggiungere un risultato, non cedeva su niente e durante i nostri allenamenti ci massacrava. Ho interpretato Nina nel “Giardino dei ciliegi” di Cechov diretta da lui e ne porto ancora i segni... Ma è stata una formazione molto importante».
Poi Tinto Brass: perché accettò «Senso ’45»?
«Con Tinto ci conoscevamo da dieci anni e, prima della sua erotomania, l’ho sempre considerato, e lo considero, un uomo colto, piacevole. Avevo visto alcuni suoi film che mi erano piaciuti e più volte mi aveva proposto di lavorare insieme, gli avevo sempre risposto di no, finché mi arriva la sceneggiatura di “Senso ’45”, era bellissima, fedelissima alla novella di Camillo Boito, sia pure trasferita in un’altra epoca. Il film di Visconti meraviglioso, però a mio avviso aveva reso troppo romantica la vicenda, dove invece nessun personaggio è positivo, direi piuttosto che ha un contenuto nichilista. Accettai la proposta di Tinto, mettendo dei paletti precisi».
Quali?
«Innanzitutto gli dissi: le scene ginecologiche con me te le scordi».
E lui ha accettato?
«Abbiamo litigato dal primo all’ultimo giorno di set. Nelle scene che lui voleva rendere più hot fu costretto a mettere una controfigura, perché io non ero disposta a farmi inquadrare in certe posizioni. L’unica in cui sono veramente io, nuda, è quando con Gabriel Garko, ovvero il tenente Helmut Schultz, mio amante, nuotiamo nelle onde del mare. La pornografia non aiuta nel cinema e alla fine non ho voluto partecipare nemmeno alla promozione del film, sono andata solo alla prima conferenza stampa».
Il vero primo grande successo nel cinema, però, lo aveva ottenuto prima, con Philippe Leconte, nel film «Il marito della parrucchiera».
«Questa è tutta un’altra storia, la definirei poetica. Inizia con le belle lettere che il regista mi scriveva rigorosamente con penna stilografica e dove mi dava del voi, spiegandomi i dettagli delle sue idee sul personaggio. Ero incantata. Mentre andavo e venivo tra Roma e Parigi per altri impegni lavorativi venni a sapere che nell’ambiente giravano voci sulla scelta, per questo film, di un’attrice italiana: si diceva che per il regista sarebbe stato casser le visage, cioè rompersi la faccia, un autentico fallimento. Mi sono un po’ spaventata, ma mi arrivò un’altra lettera rassicurante, dove mi diceva di non perdermi in elaborazioni mentali e che mi avrebbe guidato lui. Voleva che ascoltassi certi brani di Dvorak: l’essenza dell’animo di Mathilde, il mio personaggio. Aveva ragione, musica soave, cui si ispirò poi l’autore della colonna sonora, Michael Nyman».
Come si è preparata a vestire i panni di una parrucchiera?
«Feci un corso per imparare il mestiere, perché i miei gesti fossero realistici. Tutti i giorni, per un mese intero, dalla mattina al pomeriggio, lavavo e tagliavo capelli a gente che accettava di farsi fare la messa in piega gratis. Ero affiancata da un vero parrucchiere che interveniva se sbagliavo... Lì ho capito quanto sia faticoso quel lavoro, a fine giornata dovevo farmi massaggiare il braccio destro che mi doleva tantissimo! C’è stato un momento in cui ho temuto di non riuscire ad affrontare il personaggio, troppo diverso da me, leggevo il copione e piangevo... poi ho realizzato che era la mia occasione per dare il via alla carriera: non potevo rinunciare, sarebbe stata la fine del mio sogno da attrice».
Invece il mestiere non l’ha cambiato...
«Quello di attrice no, ma ora sento la necessità di fare anche la regista. Le sole regie che ho firmato finora sono state su di me, invece voglio e credo di essere in grado di dirigere altri attori».
Però sia nel cinema sia nel teatro non compaiono molte registe.
«Viviamo in un mondo di uomini che occupano posti di potere e la regia è potere, ma il vento sta prendendo un’altra direzione. Le differenze di ruoli tra i due sessi le vedo soprattutto nel cinema, forse in teatro la cosa sta cambiando più rapidamente. Soprattutto all’estero, nei Paesi nordici, dove ci sono molte donne alla regia. Mi auguro che accada presto anche qui al sud».
E infatti ora a teatro lei è protagonista e regista dello spettacolo «Coppie e doppi», tratto da Shakespeare, dove interpreta ruoli sia maschili sia femminili simultaneamente.
«Amo il Bardo e mi sono inventata un bel gioco scenico. Ho selezionato alcuni dialoghi di testi celebri dove sono Amleto e Ofelia, Macbeth e Lady Macbeth, Romeo e Giulietta, Otello e Desdemona... ovvero il maschile e il femminile. Non è stato difficile, è bastato un po’ di allenamento tecnico e credo di esserci riuscita bene...».
Com’è nata l’idea?
«In ognuno c’è sia il maschio sia la femmina, basta coglierne l’essenza e lasciarsi andare».
Lei viene da una famiglia prolifica. Si è sposata due volte, perché ha scelto di non avere figli?
«Mi sentivo portata a diventare madre, ma non è successo e, forse, dato il mio lavoro non era possibile conciliare i due ruoli. Non mi sento irrealizzata, vivo felicemente un’esistenza solitaria. Il mio sogno è ritirarmi, un giorno, in una piccola isola siciliana, di cui non dico il nome, e dove posseggo una piccola casa, per godere in pieno del mistero della natura».