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 2022  gennaio 04 Martedì calendario

Su "Capi senza Stato. I presidenti della grande crisi italiana" di Marzio Breda (Marsilio)

È accaduto anche che si temesse di rispondere a una telefonata del presidente della Repubblica. Non per timidezza ma per paura delle sue parole e delle inevitabili conseguenze. Successe con Francesco Cossiga, prima taciturno e introverso «sardomuto» e poi scatenato «picconatore» della Repubblica. Non che lo si volesse censurare (qualcuno ci pensò e in parte lo fece), ma per il disagio e l’imbarazzo («Sta bene?») suscitati dalle sue ripetute esternazioni. Come ricorda Marzio Breda nel suo saggio Capi senza Stato (pubblicato da Marsilio), il compito di un giornalista è quello di riferire correttamente, descrivere il contesto, gli antefatti, le ragioni. Senza alcuna carità di patria. «Altrimenti — scrive Breda — avrei dovuto riconoscere a qualcuno un ruolo da commissario politico». E inevitabilmente tutto ciò che avrebbe scritto sarebbe apparso come falso o artefatto. Non fidandosi comunque della muta di cronisti che lo inseguiva, l’allora capo dello Stato incaricò un dattilografo del Quirinale, Dino Prò, di registrare e sbobinare le sue continue esternazioni. E non contento mandò articoli, anche tre in un giorno, ai giornali con gli pseudonimi di Franco Mauri e Mauro Franchi.


Si può avere un rapporto persino amichevole e fraterno con un capo dello Stato — e Breda lo ebbe non solo con Cossiga — ma il cronista, se è tale e dunque utile all’opinione pubblica, fa semplicemente il suo lavoro. Non guarda in faccia a nessuno. L’ambivalenza caratteriale di Cossiga («C’è un omino nero, la mia metà ipercritica, e l’omino bianco che diverte e seduce») è tutta in questo episodio. Il presidente invita Breda a casa sua per un caffè. E all’improvviso «si pavoneggia allo specchio indossando una dopo l’altra due maschere, una nera e una bianca, che teneva sugli scaffali della libreria». «Cosa credevi, caro Bredda? I due omini esistono sul serio». Reazione: un «muto sorriso di circostanza». «Ma Cossiga — nota l’autore — con la sua sciamanica visione aveva avvertito che l’Italia poteva finire male». Intuì la degenerazione della crisi istituzionale, il declino dei partiti, le spinte populiste. Ma lo disse male. E questa fu la sua principale colpa. Anche se si vantava di aver elevato l’insulto a forma d’arte. Il predecessore di Cossiga fu Sandro Pertini. Anche lui grande, e non sempre opportuno, esternatore. Con il presidente-partigiano cambiò la costituzione materiale del Paese. Prima il presidente si riteneva dovesse parlare solo in determinate circostanze ufficiali, visti anche gli articoli 74 e 87 della Costituzione. Ai suoi tempi, Giuseppe Saragat si felicitò con Nino Benvenuti per essere diventato campione mondiale di pugilato. E Carlo Galante Garrone lo riprese duramente in Senato. Quel telegramma del primo magistrato d’Italia era inopportuno. Cose del secolo scorso. Un altro mondo.


Perché il titolo Capi senza Stato? Per segnalare la loro, seppur diversa, solitudine rispetto ad altri poteri: il governo, il Parlamento, la magistratura. Ma anche per sottolineare l’inafferrabilità costituzionale del ruolo, una delle principali chiavi interpretative del libro di Breda. Ogni presidente lo ha modellato, nel solco dei limiti fissati dalla Costituzione, sulla base della propria personalità e della complessità creata dai continui vuoti della politica e dalle emergenze economiche. Ogni capo dello Stato ha affrontato a modo suo le ricorrenti crisi dell’infinita e irrisolta transizione italiana. Una diversa dall’altra. E la figura del presidente della Repubblica ha subito una sorta di metamorfosi evolutiva. Ormai irreversibile.


È accaduto anche che il capo ufficio stampa del Quirinale chiedesse la testa del quirinalista del «Corriere». Senza ottenerla ovviamente. Breda aveva seguito gli anni turbolenti del «picconatore», come poteva essere la firma anche di un settennato di svolta? Oscar Luigi Scalfaro avrebbe dovuto fare (secondo il verde Mauro Paissan) «l’esatto contrario di Cossiga». Un cattolico un po’ retrò — che molti liquidarono subito come un baciapile — e che invece fu rigorosamente laico. Alla De Gasperi. Scalfaro venne eletto nell’emozione e nello smarrimento per l’attentato di Capaci. In un anno terribile, il 1992, nel quale il sistema dei partiti si stava sgretolando sotto i colpi delle inchieste giudiziarie. Fu un presidente «governante». Non l’unico. Ovvero un «reggitore dello Stato nei momenti di crisi del sistema», secondo le parole del costituzionalista Carlo Esposito. Esternò anche lui, eccome. Quel «non ci sto» contro gli eccessi del «tintinnar di manette», in una stagione di veleni nella quale il rischio di un colpo di Stato era tutt’altro che remoto. Anni dopo, il cronista Breda chiederà al senatore a vita, andandolo a trovare nella sua casa di Novara, perché non avesse precisato le circostanze per respingere meglio quelle insinuazioni. «Dovevo abbassarmi al loro livello di indecenza?», rispose Scalfaro riferendosi a settori deviati dei Servizi «trovati con le mani nel sacco e che avevano messo in circolo accuse totalmente inventate». Scalfaro fu una sorpresa. Indigesta soprattutto per l’arrembante Silvio Berlusconi (cui depennò, nel suo primo governo, il nome di Cesare Previti destinato alla Giustizia). Il centrodestra si ritenne ingannato per una «promessa» non mantenuta di elezioni anticipate. Scomodo anche per il Vaticano. Dopotutto fu lui a dare il primo incarico a un ex comunista, Massimo D’Alema (auspice il suddetto Cossiga).


Anche Carlo Azeglio Ciampi avrebbe voluto esternare poco. Non era nel suo carattere. Ma alla fine lo farà anche più dei suoi predecessori. Soprattutto per ritrovare un senso perduto della patria, costruire una coscienza collettiva chiudendo le ferite ancora aperte. Breda lo definisce un «pacificatore nazionale». Nel coltivare la memoria della Resistenza, su cui si fonda la Costituzione, bisogna avere il coraggio di perdonare (il suo criticato riferimento ai «ragazzi di Salò»). Non di comprendere e tantomeno di assolvere. Fu quella di Ciampi una «pedagogia patriottica». Come Scalfaro, venne definito dal centrodestra un «presidente di opposizione». Si scontrò duramente con il Cavaliere nei suoi anni di massimo consenso. Limitò molte delle leggi ad personam, ma non come avrebbe voluto. Ormai debilitato dalla malattia, conversando con l’autore, raccontò che quando Scalfaro lo chiamò per chiedergli se avrebbe accettato di fare il ministro dell’Economia nel primo governo Prodi, sapeva già di avere un male incurabile. Ma disse sì per disciplina e spirito di servizio.


A differenza di Ciampi e Cossiga, Napolitano fu eletto con una modesta maggioranza assoluta. Primo capo di Stato ex comunista, si propose fin da subito — racconta Breda — di «arrivare al reciproco riconoscimento tra schieramenti e all’affermarsi di una matura democrazia dell’alternanza». Fece anche lui i conti con la Storia. E con la sua storia personale, riconoscendo gli errori del Partito comunista, «sordo» nel 1956 alla giusta battaglia ungherese per la libertà. E ammettendo l’amnesia della sinistra sulle foibe. Napolitano dovette affrontare la profonda crisi finanziaria del 2011, sulla quale vi è ancora oggi una memoria distorta. Non vi fu alcun golpe. Berlusconi fece un passo indietro dopo aver perso la maggioranza. La scelta di Monti, nominato pochi giorni prima senatore a vita, salvò l’Italia dal fallimento.


Napolitano accettò la rielezione davanti a un Parlamento paralizzato dopo il voto del 2013. Confiderà al nostro cronista: «Tutto era eccezionale in quei momenti che per essere affrontati richiedevano una formula diversa da quella auspicabile in un sistema bipolare». Breda ipotizza un pentimento successivo del presidente sulla rielezione e sulle riforme imposte dall’alto, sovrapponendosi di fatto alle prerogative delle Camere.


L’ipotesi di una rielezione, nonostante i tanti appelli, è respinta con forza da Sergio Mattarella. Un presidente attento al ruolo di arbitro assegnatogli dalla Costituzione, incline per carattere e formazione a una più quieta normalità istituzionale ma costretto ad affrontare l’emergenza di due contrapposti populismi peraltro contrari, almeno inizialmente, alla collocazione occidentale ed europeista del Paese. E oggi al governo c’è Mario Draghi, la migliore delle garanzie. Appena eletto Mattarella, c’è chi disse a Breda: «Da oggi voi quirinalisti siete destinati a estinguervi, buttati su qualcos’altro o finirai disoccupato». A margine della prima intervista concessa al «Corriere», accadde invece che fu Mattarella a interrogare Breda, ormai memoria storica del Quirinale. Rispose un po’ imbarazzato. Purtroppo l’intervista rovesciata non c’è. L’avremmo letta tutti con grande curiosità. Più per le domande — non ce ne vorrà l’autore — che per le risposte.