La Stampa, 6 gennaio 2022
Annamaria Franzoni è tornata nella villa di Cogne
La chiamavano «la bimba». E la bimba è tornata. Vent’anni dopo nella stessa casa. Ha preso il sole accanto al marito, è stata seduta al caldo del camino. Dal giardino hanno sparato fuochi d’artificio nel cielo, la notte di Capodanno. Annamaria Franzoni e Stefano Lorenzi hanno trascorso tre giorni nella villetta di Cogne in frazione Montroz, la numero 4, la casa più famosa nella tragica galleria dei delitti italiani.
Lunedì, in tarda mattinata, una coppia di turisti di mezza età si affannava alla ricerca di informazioni: «Qual è esattamente?». Erano venuti apposta, come molti altri erano saliti prima di loro. Chiedevano ai passanti, fino a quando al fondo della strada hanno visto il padre e l’hanno riconosciuto. Erano lì entrambi: il padre e la madre. Esattamente dove, la mattina del 30 gennaio 2002, fra le 8,15 e le 8,30, la signora Annamaria Franzoni colpiva sulla testa, «con numerosi e ripetuti colpi» il figlio Samuele di 3 anni «cagionandone la morte» .
Se Alfredino nel pozzo è stato l’inizio della televisione del dolore, il delitto di Cogne ha inaugurato la stagione delle investigazioni scientifiche su larga scala e dell’indotto: criminologi, psicologi, esperti, turisti del macabro, dibattiti sulla disposizione delle macchie di sangue. In molti hanno fatto carriera intorno al plastico della villetta.
Samuele Lorenzi era stato ritrovato sul letto dei genitori, nella stanza al piano seminterrato. E proprio di questo si era dibattuto per mesi: «Risultano tracce ematiche sul lenzuolo, sul piumone, sull’abat-jour, sulla parte di muro alla sinistra del letto, sulla testiera, sul muro retrostante, sul comodino, addirittura sul soffitto, in prossimità della lampada al centro dello stesso. Anche sul calorifero». L’arma del delitto era un oggetto che doveva avere queste caratteristiche: «Di agevole impugnabilità, rigido, discretamente pesante, che presenta margini acuti e spigoli vivi». Il bambino si era difeso, il bambino era sveglio. E no, non era stato un aneurisma, a Samuele non era scoppiata la testa. Non era stata una bestia scesa del bosco e neppure una «persona ignota». Un intruso. Un vicino, magari quel vicino che indossava sempre gli occhiali scuri, quel vicino calunniato dalla famiglia Lorenzi nel tentativo di indicare un colpevole. Nessun segno di effrazione. E una madre «tanto scrupolosa», come ripetevano tutti, avrebbe mai lasciato aperto mentre accompagnava il figlio Davide alla fermata dello scuolabus? «Non sono stupida, la porta era chiusa, so bene quello che faccio», aveva detto proprio Annamaria Franzoni ai carabinieri.
II marito elettricista era andato a Aosta, il figlio più grande era sul pullman verso scuola. In casa non era stato rubato niente, anche la borsetta con il portafoglio era al suo posto. Innocentisti, colpevolisti. Avvocati in scena. Sopralluoghi. Perizie, contro perizie. La villetta sotto sequestro. Mentre quella mattina c’era solo una madre molto stanca che tutti chiamavano «la bimba», una madre che all’alba di quel giorno aveva telefonato al 118 per dei sintomi simili a un attacco di panico. E poi c’era Samuele che piangeva sul lettone dei genitori.
Annamaria Franzoni ha espiato la pena, è diventata di nuovo madre come aveva chiesto subito al marito, in una delle intercettazioni ambientali che fece più scalpore: «Facciamo un altro figlio, mi aiuti a farne un altro?». Non è mai stata abbandonata dalla sua famiglia. Nemmeno ha mai ammesso il delitto. Sedici anni di carcere, ridotti a dieci con l’indulto e la buona condotta. Ai domiciliari dal 2014, infine libera nel 2019. Una perizia psichiatrica ha escluso il rischio di recidiva. Oggi ha cinquant’anni.
Dopo i tre giorni di fine anno trascorsi nella villetta di Cogne con il marito, Annamaria Franzoni è tornata a Monteacuto Vallese, sull’Appennino Tosco-Emiliano, la terra dove è nata. Gestisce un agriturismo che apre per feste e cerimonie. Vive circondata da montagne e silenzio. Sta con la sua famiglia. Alle tre di pomeriggio raccoglie del cavolo nero sul retro di casa: «Non voglio dire niente». Si affaccia alla finestra il figlio Davide, che è diventato un ragazzo grande e gentile: «Non siete i primi a chiedere un’intervista a mia madre. Ma mi dispiace, lei per adesso non vuole».
Annamaria Franzoni si è sempre dichiarata innocente. «Le credo», dice l’amica del paese Giulia Stefanelli. «Mi ha sempre ripetuto di non essere stata lei a uccidere Samuele. Tutti a Monteacuto le crediamo. L’ultima volta ci siamo viste alla messa con don Giuseppe, prima di Natale. Della tragedia non parliamo più».
Il dottor Leonardo Iannizzi scese dall’elicottero del 118 quella mattina del 30 gennaio 2002: «Ero partito pensando che fosse una crisi epilettica, una convulsione febbrile. E invece, era una scena tragica. Un bambino così piccolo. Ricordo ancora tutto, anche se chi fa questo mestiere deve proteggersi, serve una forma di rimozione, altrimenti…».
Passa il tempo. Infatti è passato. Vent’anni dopo in pochi ricordano la faccia di Samuele, molti riconoscono quella di Annamaria Franzoni. È stata una malattia. Una malattia moltiplicata per tutti i convenuti, dall’inizio alla fine della storia.