la Repubblica, 6 gennaio 2022
Caccia ai tre Re Magi
Tra gli evangelisti il solo a fornire informazioni sui magi fu Matteo, che descrisse l’arrivo a Gerusalemme di alcuni magoi senza specificarne il numero, il nome o le caratteristiche fisiche. In realtà quasi tutto ciò che sappiamo di questi sapienti ci deriva dai vangeli apocrifi e dalla tradizione popolare che, nel corso dei secoli, ne ha definito il ruolo di re, ha elencato i doni e ha stabilito che Melchiorre abbia tratti europei, Gaspare orientali e Baldassarre sia invece nero.
Nelle fonti manca anche ogni riferimento alla caccia, un silenzio degno di nota perché il motivo è invece largamente documentato nell’iconografia ed è stato, tra l’altro, oggetto di studi importanti come quelli condotti da Marco Bussagli o da Franco Cardini. Il tema venatorio ha conosciuto una notevole diffusione sebbene non sia una costante e non ve ne sia traccia in casi celebri, come negli affreschi di Giotto o nella tavola incompiuta di Leonardo. Associati ai magi, cani da caccia appaiono già nel duecentesco pulpito scolpito da Nicola Pisano per il duomo di Siena o, nel secolo successivo, nella facciata del duomo di Orvieto.
Durante il Rinascimento cani da caccia figurano sia in area padana, con Stefano da Verona, sia in Italia centrale, per esempio a Perugia con Benedetto Bonfigli, ma anche in Francia, con i fratelli Limbourg.Nell’analisi di questa specifica variazione iconografica la difficoltà principale è costituita dall’impossibilità di isolarne l’ambito di diffusione e, conseguentemente, di precisare le ragioni che ne hanno determinato l’origine. Richiami venatori appaiono e scompaiono nei più diversi contesti e linguaggi, s’affacciano nella fastosa pala di Gentile da Fabriano come nell’austero linguaggio del camaldolese Lorenzo Monaco. Neppure è dato di individuare un momento privilegiato nel ciclo dei magi, perché corni e segugi si riconoscono nelle Adorazioni, nei Cortei o nell’Incontro alle soglie di Gerusalemme. Certamente vi può essere stata una qualche influenza operata dalla committenza, ricchi signori che amavano farsi rappresentare dando sfoggio di opulenza, eppure anche in questo caso se si entra nel dettaglio qualcosa non torna. Prendendo in considerazione la committenza medicea, la più significativa sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, si può agevolmente constatare che il tema venatorio è assente negli affreschi di Beato Angelico a San Marco, il convento di famiglia, come pure nella tavola di Botticelli, che è emblema delle ambizioni della dinastia, mentre torna prepotentemente nella cappella di Benozzo Gozzoli in palazzo Medici.
Se si vuole far avanzare la ricerca può essere utile decentrare provvisoriamente l’attenzione dai magi e ampliare il campo d’indagine, interrogando altre figure di aristocratici cacciatori. Tra i più noti vi è Uberto di Liegi, appartenente alla dinastia regale dei Merovingi. Recatosi nel bosco per cacciare, Uberto s’imbatté in un cervo che aveva un crocefisso tra le corna, esattamente il medesimo miracoloso incontro effettuato dal nobile romano Eustachio. Entrambi furono canonizzati e incarnano, in area germanica e latina, l’archetipo del santo cacciatore. Come si poteva leggere nel Timeo o nelle Etimologie di Isidoro da Siviglia, il Medioevo aveva trasformato il mondo materiale in una selva, la figura del santo cacciatore rispondeva all’esigenza di mettere in scena l’epopea della salvezza in un orizzonte divenuto oscuro e insidioso.
La narrazione fondata sulla selva aveva però bisogno di un antieroe, un ruolo che fu assegnato al biblico Nimrod. In Genesi Nimrod, o Nembrot, è un valente condottiero e cacciatore, durante il Medioevo però il personaggio fu caricato di un’aurea negativa e trasformato in un tracotante gigante che da Babilonia sferra il suo attacco al cielo.
Il maggiore interprete di questa versione della leggenda fu Dante che conficcò il perfido re nel profondo dell’inferno, colpevole d’aver causato la separazione e l’incomprensione tra le stirpi discendenti da Noè. Favorito dalla fortuna della Commedia il mito di Nembrotte ebbe lunga vita ed è testimoniato, alla fine del Quattrocento, nel più antico mazzo completo di tarocchi attualmente conosciuto: il Sole Busca. Nel Sole Busca Nimrod prefigura l’arcano della torre, una carta che assumerà forma canonica solo nel XVII secolo, quando la torre diventa La maison Dieu. La carta è interpretata come “La casa di Dio”, sebbene letteralmente sia “La casa Dio”. Per avere ragione della caduta della preposizione de, Alejandro Jodorowsky ha considerato la locuzione come pura materia sonora. Rimasticato e decostruito il suono La maison Dieu subisce una metamorfosi e riemerge come L’âme et son Dieu(l’anima e il suo dio). Se accogliamo l’ipotesi che il titolo dell’arcano XVI non sia uno sbaglio, ma che sia invece frutto dell’erranza della lingua, quindi di una strategia collettiva impiegata per ritrovare ciò che si perde nella differente manipolazione di una stessa metafora, allora potremo avvicinarci alla radice che lega Uberto, i magi, Nimrod ed Eustachio: la ricerca del sacro o, in altre parole, il rapporto tra l’anima e il suo Dio.
È una caccia nelle tenebre, come quella che Pisanello dipinse nella Visione di Sant’Eustachio e che Nicola Cusano descrisse nel De venatione sapientiae,è un’avventura dall’esito incerto guidata solamente dall’utopia di una stella. Potremmo forse arrestarci qui, ma il potere d’attrazione operato da altre figure di nobili cacciatori sembra troppo debole per imporre una variazione iconografica in un tema tanto diffuso, dev’esserci quindi stato qualcosa di più, qualcosa che è presente nella stessa tradizione popolare e che può aver determinato e armonizzato più varianti complementari. Riprendiamo le cose dal principio: seguendo quanto sin qui delineato parrebbe che la tradizione abbia ridisegnato e interconnesso Nimrod e i magi. Il gigante ha separato i figli di Noè che devono essere riuniti: Baldassarre, Melchiorre e Gaspare diventano così i discendenti ideali di Cam, Jafet e Sem. Per tale ragione i sapienti di Matteo devono manifestare caratteristiche morfologiche così marcate e devono essere re perché solo in questo modo avranno l’autorità per riunire le nazioni disperse a Babilonia. Sono maghi è vero, ma la loro magia prima ancora di essere divinatio è venatio.
Se nella narrazione tra la vicenda di Nimrod e quella dei magi c’è distanza cronologica, nell’immaginario le due vicende sono contemporanee perché assunte a opposti modelli di condotta di fronte a una medesima condizione. I cani da caccia che Pisano scolpì nel 1265, anno natale di Dante, sono la risposta alla sfida lanciata da Nembrotto.
Il racconto dei magi non ha perso d’interesse perché, allora come oggi, quella favola ci ricorda che, oltre la Babilonia di codici e lingue, il cosmo comunica in un linguaggio costantemente aperto a chi è disposto a mettersi in cammino e a mettere da parte le proprie certezze. Per giungere alla soglia della casa di Dio, i magi non fecero altro che affidarsi alla logica delle meccaniche celesti.