la Repubblica, 6 gennaio 2022
L’omicidio di Piersanti Mattarella resta ancora un mistero
Quarantadue anni dopo, è ancora un mistero. Resta senza nome il killer che il giorno dell’Epifania del 1980 scaricò otto colpi contro Piersanti Mattarella, il presidente della Regione siciliana, l’uomo del rinnovamento, era il fratello dell’attuale presidente della Repubblica. È l’unico delitto eccellente di Palermo, ordinato dalla Cupola mafiosa, su cui i pentiti hanno saputo dire ben poco a proposito del commando che entrò in azione. Forse, perché il killer e il complice che guidava una Fiat 127 non erano mafiosi, ma terroristi dei Nuclei armati rivoluzionari: era l’ipotesi del giudice Giovanni Falcone, ripresa nel 2018 dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Salvatore De Luca e dal sostituto Roberto Tartaglia, oggi vice capo del Dap.
Un’inchiesta ampia, ma prove non ne sono arrivate, nonostante un certosino lavoro di ricostruzione svolto dai carabinieri del Ros sulle armi e i proiettili di 33 delitti commessi dai Nar fra il 1977 e il 1981. È stato impossibile fare le comparazioni con i proiettili dell’omicidio Mattarella, usurati dal tempo. E ora l’inchiesta sulla pista nera va verso l’archiviazione. Dice Andrea Mattarella, il nipote di Piersanti: «A noi familiari resta l’amarezza per non conoscere la verità completa, ma aspettiamo con fiducia l’operato dei nostri magistrati». L’archiviazione è d’altro canto solo un passaggio formale, alla procura di Palermo alcuni fascicoli non vengono mai messi in archivio. E poi, passato e presente della città continuano a intrecciarsi nelle parole dei vecchi mafiosi.
Tre anni fa, Tommaso Inzerillo, uno dei padrini ritornati dagli Stati Uniti dopo la morte di Totò Riina, venne intercettato dalla squadra mobile mentre sussurrava a un giovane complice: «È venuto un politico qua, e lui gli ha detto: “A Roma comandi tu, qua a Palermo comandiamo noialtri”». Sono le stesse parole che il pentito Francesco Marino Mannoia raccontò nel processo a Giulio Andreotti: “lui”, ovvero Stefano Bontate, mafioso autorevole e massone, affrontò in malo modo l’ex presidente del Consiglio arrivato a Palermo due mesi dopo l’uccisione del presidente della Regione. Quel giorno, c’era anche Mannoia, uno dei fedelissimi di Bontate, all’incontro organizzato in una villa di Altarello di Baida. Ai mafiosi non piaceva affatto il rinnovamento che Piersanti Mattarella stava portando nella politica e nell’amministrazione della cosa pubblica. Sono le certezze consacrate nella sentenza che ha condannato Riina e gli altri componenti della Cupola come mandanti del delitto dell’Epifania. Sono le certezze ribadite nella sentenza che ha dichiarato prescritta, per il troppo tempo trascorso, l’accusa di associazione mafiosa contestata a Giulio Andreotti.
Ma perché i boss avrebbero dovuto rivolgersi a killer esterni per il delitto Mattarella? Falcone era partito dalla confessione del terrorista nero Cristiano Fioravanti per arrivare alle accuse nei confronti del fratello, Giusva, e di Gilberto Cavallini. Ma la successiva ritrattazione del pentito determinò l’assoluzione già in primo grado. Un altro magistrato, Loris D’Ambrosio, esperto di terrorismo, aveva intanto segnalato la stranezza di alcuni spezzoni di targhe ritrovate nell’ottobre 1982 in un covo dell’estrema destra a Torino: anche i killer di Mattarella avevano utilizzato due spezzoni di targhe rubate, i numeri rimasti, sistemati in modo diverso, erano in quel nascondiglio. Un’altra verifica da fare, neanche questa facile. Ci sono voluti quattro anni per ritrovare le targhe, erano sotto una montagna di buste, in un archivio del tribunale. Il corpo di reato “110116”, contenente i tratti “Pa” e “563091”, ha segnato una svolta: la sequenza di numeri non è composta da ritagli. È una targa originale, ha confermato la Scientifica, venne rubata nel 1981. Dunque, nulla avrebbe a che fare con il delitto Mattarella. La pista nera si allontana. Restano i misteri di Palermo: dall’ufficio corpi di reato è scomparso il guanto che il killer aveva dimenticato nell’auto della fuga.