Corriere della Sera, 6 gennaio 2022
Nato-Mosca, troppi equivoci
BERLINO «Ma se lei fosse favorevole alla riunificazione tedesca e noi fossimo d’accordo a non spostare la giurisdizione della Nato di un solo pollice verso Est?», disse James Baker a Mikhail Gorbaciov, che lo guardava sorpreso e incuriosito. Il colloquio avveniva al Cremlino il 9 febbraio 1990. Erano i giorni cruciali nei quali si decideva il futuro della sicurezza europea. Il Muro di Berlino era caduto tre mesi prima. L’impero sovietico era scosso dalle fondamenta e Helmut Kohl aveva già lanciato il suo piano dei dieci punti, che avrebbe portato in ottobre alla fine della divisione della Germania. Il segretario di Stato americano era venuto a Mosca, per saggiare ancora una volta le intenzioni del leader sovietico, deciso a vendere care le poche carte che gli restavano in mano.
Impegnato in un vorticoso periplo diplomatico, troppo spesso lontano da Washington per essere in sintonia con l’evoluzione continua del pensiero della Casa Bianca in quei mesi dove la storia subiva continue accelerazioni, Baker però non poteva sapere che l’ipotesi da lui ventilata non rispecchiasse più la realtà. E infatti lo stesso giorno, il presidente George Bush senior mandò un messaggio al cancelliere tedesco, nel quale proponeva per la Germania Est uno statuto speciale in una Germania riunificata membro a pieno titolo della Nato, ma evitava ogni accenno a futuri ampliamenti.
Eppure, il colloquio con Baker fu probabilmente decisivo per convincere un Gorbaciov già vacillante. Il giorno dopo, il 10 febbraio, Helmut Kohl volò a Mosca per il famoso incontro, nel quale il leader sovietico diede il suo via libera alla riunificazione tedesca, ottenendo dal cancelliere la rassicurazione verbale, che «naturalmente la Nato non si allargherà al territorio della Germania Est», dunque nulla in nome e per conto di tutta l’Alleanza.
Sono passati più di trent’anni dalla fine della guerra fredda. Ma risale proprio a quei giorni l’equivoco che ancora oggi alimenta insicurezza e instabilità nel quadrante europeo. Come andò veramente? Ci fu un impegno formale a non ampliare l’Alleanza a Est?
Non è un dibattito soltanto accademico. Come scriveva George Orwell in 1984, «chi controlla il passato controlla il futuro». E a quella frase rimane infatti appesa tutta la narrazione di Vladimir Putin sul presunto «tradimento» dell’Unione Sovietica da parte dell’Occidente, che avrebbe violato l’impegno a non ampliare i confini della Nato. «Non siete partner affidabili, rinnegate ogni accordo precedente e avete schierato la vostra infrastruttura militare alle nostre frontiere», ha più volte ripetuto il capo del Cremlino, chiedendo «garanzie di lungo periodo per la sicurezza della Russia», non ultima l’esclusione di ogni ipotesi d’ingresso dell’Ucraina nella Nato.
Pochi studiosi hanno analizzato la fine della guerra fredda con più accuratezza e rigore di Mary E. Sarotte. In Not One Inch, il suo terzo libro sul tema appena uscito per Yale University Press, la studiosa americana ricostruisce quei momenti fatali, grazie anche agli archivi personali e da poco accessibili di Bill Clinton, George Bush padre, Helmut Kohl e anche di Mikhail Gorbaciov, oltre agli appunti personali e alle lettere di James Baker, Hans-Dietrich Genscher e dell’allora ministro degli Esteri sovietico Eduard Shevardnadze. La tesi di fondo dimostrata da Sarotte è che non ci fu alcun impegno scritto da parte della Nato, né i dirigenti sovietici chiesero mai qualcosa del genere. Ma rimane tuttavia una zona grigia, nella quale ognuno e soprattutto Putin ricostruisce quel passaggio pro domo sua. Il che non esclude, così Sarotte, che gli Stati Uniti commisero errori gravi, che avrebbero anche potuto cambiare il corso degli eventi.
«Il cuore della storia – spiega la studiosa – è come nel corso degli anni Novanta il significato di “non un solo pollice” sia cambiato drammaticamente, passando dalla vaga concessione di Baker alla piena consapevolezza americana di poter non solo vincere ma stravincere la partita strategica con l’Urss». In realtà il cambiamento era già in corso. È un fatto che appena 14 giorni dopo il sì di Gorbaciov, incontrando Kohl a Camp David, il presidente Bush liberò il campo da ogni dubbio quanto a possibili ipoteche sul futuro della Nato: «All’inferno, alla fine abbiamo vinto noi, non loro».
L’errore, tuttavia non fu nella scelta di lasciare la strada aperta a un futuro allargamento della Nato, ma nel modo in cui l’ampliamento venne fatto. Il problema, secondo Sarotte, è che l’hubris americana mise definitivamente da parte una strategia alternativa, sostenuta da una parte dell’amministrazione, che «avrebbe consentito un’affiliazione dell’Ucraina al Patto atlantico accettabile perfino per Mosca». Il modello di riferimento era la Norvegia, il solo membro fondatore della Nato a condividere una frontiera con l’Urss, che pur rimanendo protetta dall’articolo 5, non hai mai ammesso basi, truppe o armi nucleari dell’Alleanza sul suo territorio.
Poco saggio e lungimirante, spiega l’autrice, fu allargare la Nato senza tener conto della realtà geopolitica: «Più l’Alleanza avvicinava la sua intera infrastruttura (basi, truppe e soprattutto armi nucleari) a Mosca, più aumentava il danno al nuovo rapporto di cooperazione con la Russia. Alcuni negli Stati Uniti capirono il problema e proposero un ampliamento per fasi contingentate in modo da minimizzarne l’impatto. Invece trionfarono i fautori di un solo modello buono per tutti. L’errore di Washington non fu quello di allargare la Nato all’Est e all’Est Europa, ma di averlo fatto in modo da massimizzare l’irritazione di Mosca e dar voce ai reazionari russi». Non è un caso che Vladimir Putin, nel 2014, giustificasse l’annessione della Crimea dicendo che era una «risposta necessaria allo schieramento dell’infrastruttura della Nato ai nostri confini». E continua a farlo ancora oggi, mentre ammassa truppe ai confini dell’Ucraina
Nelle coulisse del libro, una parte gustosa è dedicata anche a Bill Clinton e alle conseguenze geopolitiche del suo affaire con Monica Lewinsky. Al vertice Nato di Madrid del 1997, quello in cui venne deciso il primo allargamento, il presidente americano si «muoveva come un sonnambulo» e appariva completamente disconnesso da quanto accadeva. Sembra che, prima che partisse da Washington, la ragazza lo avesse minacciato di rivelare tutto e ci fosse stato un grosso litigio. Nei mesi successivi, che avrebbero portato al suo impeachment, la situazione peggiorò: «Clinton era distratto, le rivelazioni limitavano il suo spazio di manovra politico, alla fine spendeva più tempo con gli avvocati che con i consiglieri di politica estera, per la totale disperazione del segretario di Stato Madeleine Albright». Quando il testosterone e gli affari di Stato entrano in conflitto. Suona familiare.