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 2022  gennaio 06 Giovedì calendario

Le elezioni del capo dello Stato ai tempi del Covid

Un pensiero vagante: come faremo a raccontarvi la giornata in cui verrà eletto il nuovo capo dello Stato?
Covid bastardo, devono richiudere il Transatlantico di Montecitorio. 
Il magnifico atrio liberty floreale, progettato alla fine dell’Ottocento dall’architetto palermitano Ernesto Basile – sullo stile delle navi passeggeri impegnate nelle tratte intercontinentali – sta per essere trasformato di nuovo in un’appendice dell’emiciclo; i 1.009 grandi elettori vi entreranno a turno, voto scaglionato per ordine alfabetico, tutti in fila con le mascherine Ffp2 sul viso e addosso l’odore del gel disinfettante, voci rarefatte, una liturgia spezzata, un dolore forte. 
Cronisti politici con il magone. 
Rischiamo di perderci tanta roba: gli intrighi sublimi e i volgari intrallazzi, le risate oscene, le occhiate dei Giuda e i sospetti crudeli, i saccenti comizi di Matteo Renzi, le dolci carezze di Pier Ferdinando Casini, il fantasma di Giuliano Amato, la Meloni e Salvini che avrebbero finto di sorridersi, certi interminabili caffè alla buvette dietro a questo e dietro a quello, per poi andarci a sedere su uno di quei divani in pelle color rosso pompeiano e osservare, in una martellante emozione, il fastoso palcoscenico. 
Consola, in parte, la certezza che le decisioni importanti verranno comunque prese altrove. Da anni, ormai, accade così. 
Marco Follini – oggi scrittore e autorevole osservatore: ma parlamentare per quattro legislature, a lungo nella potente direzione della Dc quando Giampaolo Pansa la definiva «Balena bianca», poi segretario dell’Udc e vice di Berlusconi a Palazzo Chigi tra il 2004 e il 2005 – ecco, Follini ha svelato alla Stampa che nel 1985, il nome di Francesco Cossiga come possibile, futuro presidente della Repubblica, venne fatto durante una cena a casa Agnes alla quale erano presenti il segretario della Dc, Ciriaco De Mita, e il segretario del Pci, Alessandro Natta. 
Perché la verità è che i peones hanno sempre contato poco persino quando avevano, in gran parte, un minimo di rango, di storia politica: ed è perciò francamente imbarazzante anche solo immaginare come verrà trattata dal 24 gennaio in poi l’attuale fanteria, noto com’è che la maggior parte dei fanti ha come unico obiettivo quello di finire la legislatura, beccarsi gli ultimi accrediti di stipendio, garantirsi una pensione e non rischiare minimamente di tornare invece alle urne, ipotesi tragica che li costringerebbe a trovarsi uno straccio di lavoro fuori dal Palazzo. 
Però servono anche i loro voti. 
Certo che servono. 
Ricordi in dissolvenza. 
Maggio del 1992: i Grandi elettori da due settimane sono chiusi nel Transatlantico ostaggio dello scontro fratricida tra Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani. Il Divo (cit. Paolo Sorrentino) cerca di spingere Forlani ad un’auto-candidatura suicida. Ma il segretario della Dc dietro lo sguardo mite cela un’astuzia feroce: un Coniglio mannaro (ancora un soprannome di Pansa: Santo Cielo, che fuoriclasse), e non molla. Così: Andreotti, per ore e ore, resta chiuso nel suo ufficio. Processione di pincopallo. Poi entra Rino Formica: esce ed entra Paolo Cirino Pomicino. Un pomeriggio arriva pure Tonino Tatò, l’ex alter ego di Enrico Berlinguer che si è messo a dirigere l’agenzia di stampa del Pds, la Dire. Bussa, fa capolino e, con aria complice, dice: «Giulio, senti: quando sarai il candidato unico della Dc, è vero che la prima dichiarazione la rilasci a me?». 
Intanto giù, in Transatlantico, il capogruppo della Dc, Gerardo Bianco, salta da un parlamentare all’altro, da Claudio Martelli a Mino Martinazzoli, a Pier Ferdinando Casini (che non è un omonimo, ma proprio Pierferdy l’originale); Bianco, infilato in un abito blu di due taglie più grandi, blandisce, allude, promette, suggerendo però di non credere al senatore missino Romano Misserville. Perché, che ha detto questo avvocato ciociaro? E niente: Misserville racconta che, all’ippodromo delle Capannelle, il suo cavallo chiamato «Grancondottiero» ha battuto quello di Andreotti, «Silvio Alfredo». E lì, in tribuna, Andreotti gli avrebbe soffiato (ricordate, no, la sua voce?): «Visto che qui hai già vinto, dammi almeno il voto per mandarmi al Quirinale». 
Insomma, cincischiano. Poi, una mattina, arriva il boato di Capaci: Cosa nostra uccide Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre della scorta. Paure febbrili, panico. Sbrigarsi. Rompere gli indugi. Durante i funerali del magistrato, a Palermo, da Montecitorio rimbalza la notizia che i socialisti hanno deciso di votare per Oscar Luigi Scalfaro. Così tocca a Vincenzo Scotti avvicinare in sagrestia Giovanni Spadolini, in quel momento presidente del Senato, e comunicargli – con tatto – la notizia (Spadolini s’era convinto che, nell’emergenza, sarebbe stato lui a dover salire al Colle: e, per questo, aveva trascorso l’intera notte a scrivere il discorso di insediamento). 
Insomma: succedono sempre moltissime cose lontano dal Salone dei passi perduti, vecchio soprannome del Transatlantico di formidabile attualità. 
Anche solo cinque piani più su. 
Per dire: nel maggio 1999, un pomeriggio Silvio Berlusconi esce dall’emiciclo (abito di Caraceni, tonico, magnetico, un codazzo di deputate adoranti, deputati che riverenti cedono il passo), e convoca una riunione riservata nella stanza di Beppe Pisanu (grande come un campo da tennis): c’è il capogruppo di An, Gustavo Selva, arriva Clemente Mastella, si affaccia Casini (perché Casini non manca mai, eh). «Solo per dirvi che abbiamo deciso: il presidente sarà Ciampi». 
È così che va. 
Da sempre. 
Il cerimoniale prevede poi che il nuovo capo dello Stato attraversi il Transatlantico tra due ali di corazzieri e, scortato dai due presidenti delle Camere, entri in Aula a prestare giuramento. 
Di solito, dietro ai corazzieri ci siamo noi cronisti. Non sarà facile. Ma faremo in modo di raccontarvi tutto pure stavolta.