il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2022
Intervista a Mike Garson, il pianista di Bowie
“In tour, tanto tempo fa. David mi confidò di aver visto un sensitivo: gli aveva predetto la morte a 69 anni. Accettò la profezia, da quel giorno seppe quando sarebbe finita la sua vita”. Mike Garson ha lavorato su nove album di Bowie, fino al 2003. È stato di più di un pianista virtuoso nella band: per il Duca Bianco era un complice. “Le nostre menti erano connesse telepaticamente dalla musica. Lui aveva il terzo occhio. Io ero le sue dita sui tasti”, confida Mike alla vigilia del 75mo anniversario della nascita di Bowie, l’8 gennaio. Quel giorno Garson piloterà una sontuosa jam in streaming con le canzoni del Nostro riarrangiate e reinterpretate da star come Noel Gallagher, Simon Le Bon, Joe Elliott dei Def Leppard e molti altri. Anno bowiano, il 2022: si è aperto con la vendita del suo catalogo, per 250 milioni di dollari, alla Warner Chappell. Proseguirà al Sundance Festival con un film ricco di immagini inedite. Il 10 gennaio saranno sei anni dalla scomparsa, subito dopo la sconvolgente uscita di scena con Blackstar. “A lungo non riuscii ad ascoltare quell’album formidabile o guardare il video di Lazarus. Troppo dolore”, ammette Garson.
Il vostro ultimo contatto?
Due mesi prima che morisse. Clifford Slapper scriveva la mia biografia, The piano man: mi chiese l’analisi delle 65 canzoni composte o suonate con Bowie. Mandai una email a David: ‘Non ci crederesti! Un mucchio di roba fantastica’. Pochi secondi dopo mi rispose: ‘Mike, abbiamo fatto uno stupefacente lavoro insieme’. Scoppiai a piangere.
Lei sapeva della malattia?
No, solo pochi ne erano al corrente, come il produttore Tony Visconti. David non aveva voluto coinvolgere gli amici. Ma ero certo fosse la fine. Dissi a mia moglie: ‘Non lo vedrò più’. Quando sentii in tv la notizia della morte ero distrutto, ma non sorpreso. Però mi arrivano messaggi da lui, ovunque sia.
Sul serio?
Due anni dopo ero in tour con gli Alumni, ex-musicisti di Bowie. Venne a vederci un bodyguard di David. Mi rivelò che sul letto di morte lo aveva pregato di ringraziarmi. Era l’apprezzamento per quel che avevamo realizzato. Dal 1972. Mezzo secolo fa.
L’anno della pietra miliare del glam-rock, The rise and fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. Lei, Garson, era un giovane asso dei jazz club.
Stavo dando la prima lezione di piano a una studentessa. Mia figlia aveva un anno, cullata su un dondolo. Squilla il telefono. ‘Sono David Bowie’. Io: ‘Chi?’.
La invitava a un’audizione per il tour americano.
Convocazione agli RCA Studios di Manhattan, venti minuti più tardi. Abitavo a Brooklyn. Affidai la bimba alla studentessa. Dopo, mia moglie si infuriò: ‘Poteva essere una pazza!’.
Arriva negli studi.
Trovo David e gli Spiders abbigliati in modo eccentrico, come se fossero pronti per il Madison Square Garden. Io in t-shirt e jeans. Il chitarrista Mick Ronson vuole suoni Changes. Provo l’attacco, sette secondi dopo mi bloccano. ‘Ok, sei preso’.
Tournée epocale, ma negli Usa le arene erano semivuote.
Però i semi erano gettati. Io suonavo in una decina di pezzi. Nelle pause scendevo in un posto libero e pensavo: David è un genio.
3 luglio 1973. All’Hammersmith Odeon di Londra David annuncia che Ziggy Stardust ‘morirà’ lì.
Ce l’aveva detto prima, ma per il pubblico fu una coltellata. Potevi sentire i loro cuori cadere in pezzi. Identificavano il personaggio con l’artista, temettero il ritiro. Raccontano che per sfogare l’energia si scatenò un’orgia in sala: non me ne accorsi. Avremmo potuto andare avanti a lungo con Ziggy, però David non voleva dare niente per scontato.
Lei, Garson, era il ‘regolare’ della band.
Questa non l’ho mai rivelata. Dopo un concerto a New York, al Garden o alla Carnegie Hall, ci fu un party. Di solito preferivo dormire, quella volta andai. Nella sala erano in trecento, tutti strafatti di cocaina. Non sapevo come comportarmi. David se ne accorse. Gridò: ‘Fermi!’. Il re aveva parlato, trasalirono. Mi indicò: ‘L’unico che io rispetti qui è Mike! Perché non si droga!’. Io non l’ho mai fatto, lui aveva intuito i propri rischi. Ma era al meglio quando l’eroina lo scavava dentro, come in Young americans. Dio concede la magia agli artisti, poi chiede il pedaggio.
Germania 2004. L’ultimo vero concerto.
Reality tour. Dalle parti di Amburgo. Due sere prima, a Praga, aveva sentito male una spalla, show interrotto. Il medico del presidente ceco aveva rassicurato David. Ma a Scheeßel d’un tratto sentii le mie dita rattrappirsi. Stava accadendo qualcosa di strano. Nello stesso istante Bowie si portò le mani al petto. Riuscì a concludere lo spettacolo. In ospedale gli applicarono degli stent, gli riaprirono le arterie.
Progettò un ritorno.
Che non ci fu mai, con la band. Nel novembre 2006 mi disse: ‘Mike, solo io e te’. Voleva recuperare fiducia in se stesso. Andammo a un benefit a New York con Alicia Keys. Bowie impose di non filmarlo, si sentiva fuori forma per i farmaci. Fu una serata di grazia. Sedevo al piano, David e Alicia duettarono in Changes. La canzone del nostro primo incontro, il suo addio ai live. Il cerchio si chiudeva.