la Repubblica, 5 gennaio 2022
Tutti i numeri sui rider
Non sono tutti giovani, non sono né autonomi né liberi di organizzarsi perché le modalità di lavoro sono rigidamente regolate dalle aziende, dagli algoritmi e in un caso su quattro persino da nuovi “caporali digitali”, e sono molti di più dei 60 mila riders individuati dalla Procura di Milano a febbraio dell’anno scorso. E non sono neanche tutti riders: i 570.521 lavoratori delle piattaforme digitali rilevati dall’indagine Inapp Plus, che per la prima volta fa un censimento completo della Gig Economy in Italia, fanno anche traduzioni online, aiutano a fare i compiti, costruiscono programmi informatici. Con la pandemia non sono solo aumentati, ma sono anche diventati molto più dipendenti da questo tipo di lavoro: se nel 2018 solo il 49% dei lavoratori delle piattaforme considerava quest’attività essenziale o importante, tre anni dopo la percentuale supera l’80%, segno delle difficoltà del mercato, che ha costretto molte persone, provenienti magari da settori particolarmente colpiti dal Covid-19, a reinventarsi, approfittando anche della maggiore richiesta di consegne a domicilio o servizi informatici.
La loro situazione contrattuale rispecchia la normativa italiana, regolata al momento da un unico contratto collettivo di lavoro, stipulato nel settembre del 2020 dal sindacato Ugl e da Assodelivery, l’associazione che raggruppa le principali piattaforme che operano in Italia, e che inquadra i riders come lavoratori autonomi. E infatti soltanto l’11% dei lavoratori delle piattaforme ha un contratto di lavoro dipendente, una situazione che dovrebbe cambiare radicalmente se venisse approvata anche dal Parlamento e dal Consiglio Europeo la direttiva voluta dalla Commissione Ue, che stabilisce che i riders sono lavoratori dipendenti, e assegna all’azienda l’onere di provare il contrario. La direttiva, affema il presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda, permetterebbe a «cinque milioni e mezzo di lavoratori digitali in Europa» di «essere riclassificati come lavoratori subordinati, usufruendo così di alcuni diritti fondamenti (tra cui salario minimo, orario di lavoro, sicurezza e salute sul lavoro, forme di assicurazione e protezione sociale) finora negati».
Autonomi di nome, i lavoratori italiani delle piattaforme sono molto lontani dall’esserlo sul serio: sono soggetti alla valutazione del lavoro svolto, da cui dipendono gli incarichi futuri (40,7%), in qualche caso persino il pagamento (il 4,3% dichiara di non averlo avuto in seguito a una valutazione negativa) e persino la stessa prosecuzione del lavoro (per il 2,8% si arriva alla disconnessione forzata dalla piattaforma, di fatto un licenziamento). E i giudizi sono legati al numero di incarichi portati a termine (59,2%) e alla valutazione dei clienti (42,1%). Le tutele contrattuali sono debolissime: tre lavoratori su dieci non hanno neanche un contratto scritto, il 26% non gestisce direttamente l’account di lavoro per accedere alla piattaforma e nel 13% dei casi il pagamento viene gestito da un esterno.
Queste condizioni di lavoro non riguardano studenti che arrotondano per pagarsi gli studi: i lavoratori delle piattaforme, che sono per tre quarti uomini, coprono tutte le fasce di età ma in prevalenza, quasi i due terzi, hanno un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, e quasi la metà ha un nucleo familiare con figli. Per 274 mila persone questa è l’attività principale, mentre per 139 è l’attività secondaria e per 157 mila occasionale. In quest’ultimo raggruppamento si trovano la maggior parte dei giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni.