ItaliaOggi, 4 gennaio 2022
In morte di Maga Lino
Il mondo del vino piange la scomparsa di Maga Lino, uno dei padri del vino italiano di stanza a Broni dove produceva il mitico Barbicarlo, vino rosso frizzante, anima oltrepadana e accompagnamento perfetto per quelle pacciade raccontate da Gianni Brera. E fra i primi estimatori di quel vino c’era proprio Giuàn Brera fu Carlo, che morì in un incidente stradale il 19 dicembre del 1992, dopo aver bevuto il suo vino preferito. Ora, ignaro della combinazione di data, lo scorso 19 dicembre (29 anni senza Brera) con Marco Gatti abbiamo aperto un Barbacarlo del 1990 da accompagnare alla bagnacaoda, benché fosse perfetto anche sulla casseoula, come fece fino all’ultimo Gianni Azaria Borrelli, soprannominato da Brera, «Il Monsignore», conduttore della trattoria l’Altra Isola di Milano. Quel 1990 era un Barbacarlo integro, leggermente petilant, saporoso.
Lui si faceva chiamare Maga Lino e se invertivi gli elementi ti correggeva. In questo vezzo c’era tutta la sua storia: il nome antico di Broni è Cameliomagus e lì stavano le sue radici dacché nella memoria storica della sua famiglia non c’era nessuno che non avesse avuto a che fare con la vigna. Due i vini prodotti: il Montebuono (da uve croatina, uva rara e vespolina, più o meno come il più celebre Buttafuoco) e il Barbacarlo, che invece è frutto di uve croatina, uva rara, ughetta e un che di barbera) e non risulta mai uguale anno dopo anno: alcune volte è dolce, perché la natura lo porta lì, altri è secco, altri ancora è più o meno frizzante. Pacato e testardo, ci ha messo tanti lustri perché la legge, con una sentenza storica del Tar del Lazio, riconoscesse l’unicum del Barbacarlo, che è tale perché nasceva dalla vigna dello zio Carlo. Punto e basta.
Quando arrivavi in via Mazzini a Broni eri sicuro di trovarlo lì, con la sigaretta accesa che fumava lentamente, convinto, come Brera, che «Il vino buono pulisce la bocca del fumatore». Anche a fine agosto, quando compì i suoi 90 anni, non rinunciò alla sigaretta e nemmeno agli amici, accorsi festosi attorno al tavolo centrale con i produttori dell’Oltrepò Pavese e lui al centro, come a decretare che Lino era un simbolo indiscusso ed un fuoriclasse. Nel 2006, con Marco Gatti lo chiamammo sul palco di Golosaria per rendergli l’omaggio di uno dei 10 padri del vino italiano. E lui si accomodò di fianco a Gianfranco Soldera, a Josko Gravner, a Costantino Charrere e altri 6, definendosi «l’ultimo dei mohicani». Il suo vino ha sempre diviso gli appassionati, senza mezzi termini: o piace o non piace. Anche Luigi Veronelli si trovò a scontrarsi con i suoi collaboratori, perché quel vino contadino era sempre un altro racconto rispetto a quello asettico delle schede di degustazione.
Ho sempre voluto bene a Maga Lino, nel senso proprio dell’affetto che si prova per un essere umano che sapeva restituire affetto, in primis a suo figlio Giuseppe, per il quale aveva una venerazione e che ora porterà avanti l’eredità del padre. Nel mio libro uscito a fine 2020, «Del Bicchiere Mezzo Pieno, quando nella vita conta lo sguardo», ho dedicato un capitolo a Maga Lino, fra i 50 ritratti pubblicati. E ho ripescato dal mio archivio un articolo di Claudio Gallina, pubblicato nel novembre del 2011 su un giornale del Biellese. «Il suo vino, ricorda Gallina, è democratico perché lo bevono tutti coloro che lo amano. Dall’imprenditore affermato al carcerato, dalle signore della borghesia alle puttane. Ma lui ha servito anche presidenti della Repubblica e papi. Un giorno è entrato nella sua bottega un barbone che gli ha chiesto la bottiglia più vecchia che avesse, promettendogli di dargli tutto ciò che possedeva. Peccato che nel portafoglio ci fossero solo pochi spiccioli. Al che Lino senza fare una piega gli porse quella datata 1961, primo anno in cui iniziò a vendere il vino in bottiglia e lo congedò dicendo: «Va là che sei Gesù Cristo tu».