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 2022  gennaio 04 Martedì calendario

Intervista a Ivano Michetti dei Cugini di Campagna

I Bee Gees italiani? No, perché il falsetto l’hanno usato prima loro. I Måneskin degli anni Settanta? No, perché quei look con le paillettes è da cinquant’anni che lo sfoggiano. I Cugini di Campagna hanno costruito un successo intramontabile soprattutto intorno a una canzone, Anima mia. Anima del gruppo i due gemelli, Ivano (sarà lui a parlare qui) e Silvano Michetti. 
Quante versioni esistono? 
«Cinquantasette. La più strana era quella cinese che ho perduto, mentre vado orgoglioso di quelle di Sinatra, Dalida, Baglioni e Frida degli Abba. Anima mia ci ha portato in giro per il mondo, in aprile saremo in America e Canada e mi stanno chiamando anche per farla in Africa, ma devo chiarirla ’sta cosa... non vorrei fosse uno scherzo dei Måneskin». 
È un’ossessione quella per i Måneskin. Invidia? 
«Ma no. Noi siamo innamorati di loro. So’ ragazzi de Roma, mi ricordano la mia giovinezza, mi ricordano quanto ho lottato per avere successo». 
Però? 
«Però oggi loro hanno un bel vantaggio, di questi tempi le case discografiche manco ci pensano a stampare un milione di dischi, sono le visualizzazioni che fanno fare i guadagni; ecco perché agli American Music Awards hanno cantato una cover come Beggin’, che gliene frega a loro». 
Per voi era diverso? 
«Non saremmo mai potuti andare in America a cantare una cover, i nostri discografici ci avrebbero ucciso. Per dire: i Led Zeppelin non avrebbero potuto presentarsi con Yesterday dei Beatles. Non esiste». 
Poi c’è pure la questione dei vestiti copiati. 
«No, queste sono parole dure». 
Ma le avete dette voi. 
«È vero... Pensavo che i vestiti uguali all’inizio fossero una coincidenza, ma all’ennesimo episodio ho pensato che lo facevano apposta, loro, i loro designer... Potevano venire nel nostro studio e gli avremmo dato i nostri costumi, avrebbero risparmiato tempo e denaro». 
Anche Lady Gaga si ispira a voi? 

«Sì, è successo, tre anni fa ho protestato fuori da Montecitorio per difendere le ragioni del prodotto italiano». 
La «parodia» di «Zitti e Buoni» entrerà nel vostro repertorio? 
«Non sa quanti ce la chiedono. L’abbiamo fatta a nostro modo, con quei coretti è la fine del mondo, direi che abbiamo inserito un palese abbellimento alla canzone». 
Quindi è meglio la vostra versione della loro? 
«Beh sì, è piaciuta tantissimo, ce la chiedono tutti». 
Basta parlare dei Måneskin, racconti come tutto ebbe inizio. 
«Parte tutto dalla Fontana di Trevi. Abitavo lì vicino, avevo 9 anni ed ero il classico bambino che prendeva i soldi nella fontana, con un filo trasparente per non dare nell’occhio e una calamita. Vede l’analogia: io prendevo i soldi a Fontana di Trevi, a 100 metri da lì c’è via del Corso e i Måneskin...». 
Ancora? 
«Anche loro hanno iniziato così: prendevano le monete che i passanti gli davano come questua per le loro esibizioni di artisti di strada. È interessante questa analogia con loro, anche se la somma dei loro anni fa quasi la mia età». 
Che successe poi? 
«Mio papà mi sorprese e mi fece nero. La sua punizione fu spedirmi dalle 7 di mattina alle 7 di sera tra le voci bianche della Cappella Sistina. Avevo l’orecchio giusto per fare il musicista e le mie orecchie si aprirono ulteriormente al suono dei contralti e dei soprani». 
Il gruppo come nacque? 
«Mi convinse mio fratello. Un giorno andammo a cantare in un ristorante dove a cena c’erano Arbore e Boncompagni, i produttori Bruno Zambrini e Gianni Meccia. Cominciammo a cantare Nella vecchia fattoria a cappella con le vocine, il giorno dopo ci fecero registrare Il ballo di Peppe come sigla di “Alto gradimento”; speravamo in una cosa rock, ma andava bene lo stesso. Il nostro gruppo si chiamava La fine del mondo, ma ce lo fecero cambiare nei Cugini di Campagna». 
Perché non I gemelli di Campagna, visto che ne siete l’anima? 
«Perché eravamo due fratelli gemelli e due amici. Perciò per la proprietà logica delle proporzioni, abbassi uno, alzi l’altro, alla fine diventi quattro cugini». 
La svolta? 
«Nel 1972. Tornati da una serata dove avevamo cantato La mucca Carolina e L’Asino di Marenco mio papà ci disse che si era stancato: o cantate o contate. Ossia se avete successo vi mantenete da soli, se no venite a contare i blocchetti di tufo. Quelli che lui produceva in una cava che aveva aperto sulla via Tiburtina. Insomma o il successo o l’attività di famiglia. Io gli dissi che non ero convinto delle canzoni che facevamo e volevo provarne una mia: mio padre mi diede sei mesi di tempo. Mi chiusi in camera e venne fuori Anima mia». 
Così, di botto? 
«Pensai al look, agli abiti con le paillettes che ci cucivano le nostre mamme; inventai le zeppe: siccome mio fratello è più piccolino, quell’altro è più alto, immaginai zeppe di misure diverse in modo da essere tutti e quattro alti uguali. E pensai alle voci bianche, la nostra peculiarità doveva essere questa: non si deve riconoscere se canta una donna, un uomo o un bambino». 
Anche i Bee Gees cantano in falsetto. 
«La vocina arriva nel 1977 con Saturday Night Fever. Quindi dopo di noi. Non dico che ci hanno imitati, però sono arrivati alla stessa conclusione. Dopo». 
Il testo di «Anima mia» è la storia di un’attesa che rimane delusa. 
«Una notte sono andato come in trance, elaborai il testo, mi alzai, presi la penna ma non ricordavo più niente. Il cervello quando è in orizzontale deve rimanere in quella posizione per memorizzare, da eretto fa casino. Così le notti successive mi sono messo a letto con una matita e un foglio. Per due giorni non successe niente, poi entrai in quel momento psicologico di sofferenza creativa e mi uscì tutta la canzone. Era la prima volta che scrivevo un testo. Temevo che non mi avrebbero dato retta, ma io ero sicurissimo del successo e per farla accettare a tutti dissi che l’aveva scritta Franco Migliacci, il grandissimo paroliere. Si vede, mi dissero. Quando fu approvata, rivelai che in realtà era mia». 
Sempre in simbiosi con suo fratello gemello? 

«A 16 anni mi accorsi che avevo una supremazia decisionale su di lui, andai in crisi, feci qualche seduta dallo psicologo perché non mi piaceva questo aspetto e capii che lui impazziva per le cose che io odiavo. Il fatto è che siamo perfettamente complementari, anche nel gruppo: lui cura la contabilità e le tasse, io mi occupo della musica. Mai un litigio, anche perché senza di lui non saprei dove andare». 
I vostri capelli sono un marchio e un miracolo... 
«Il fatto di averli tutti è un dono, ho 74 anni, è chiaro che sono bianchi, ma finché sto sul palco e mi vesto in quel modo è normale che me li tinga un po’. Ma sono tutti nostri. Ho una foto con mio padre, mia madre e mio fratello (che non ci sono più) e noi due, sembriamo i Jackson Five».