La Stampa, 4 gennaio 2022
Nella testa dei No Cure
Incomprensibili. Così ci appaiono e così ci viene da liquidare tutti coloro che rifiutano le cure per il covid e si lasciano morire. Fossero casi isolati potremmo permettercelo, ma vedendoli moltiplicarsi, a diverse latitudini, con differenti condizioni sociali ed economiche, provare a entrare nella loro testa è un percorso che ci tocca fare, anche se attraversiamo il confine di una terra straniera e procediamo, come davanti a ciò che ci è sconosciuto, per analogie e supposizioni. Dalla nostra parte della frontiera risiede, inamovibile, l’istinto di sopravvivenza. Siamo abituati a pensarlo come un principio, l’incarto dell’anima. L’abbiamo visto permanere al fondo di situazioni insostenibili, letto negli occhi di prigionieri dei lager che accoglievano i liberatori aggrappati al filo spinato, oltre la maschera di fango di minatori estratti dal suolo dopo dozzine di giorni tra altrettanti cadaveri, sentito nella stretta di chi, terminale, cercava ancora l’unica vera ricchezza: tempo. Un uomo sopravvissuto alla ritirata di Russia raccontava che in quel gelido frangente fosse più facile morire, che avesse visto un sorriso sul volto di quelli che si lasciavano cadere, preferendo una rapida fine certa a una lunga lotta dal dubbio esito. Eppure lui continuò ad avanzare, perché aveva una ragione per farlo, che lo attendeva a un’infinità di chilometri: una vita da costruire.
È questo che manca ai No cura? Rifiutano l’ossigeno perché non hanno validi motivi per respirare? Pare proprio di no. Se l’amore di qualcun altro ci sostiene, un uomo dovrebbe reagire al richiamo dei figli preoccupati, ma non è stato così. Oltre quel confine non valgono l’affetto e la logica, bisogna azzerare per provare a capire. Il riferimento più vicino è quello della setta. Ventiquattro anni fa entrai in un ranch nel sud della California. Nelle sue stanze erano state messe decine di letti a castello. Sui materassi giacevano 39 corpi vestiti di nero dalla testa ai piedi. Seguaci del “Cancello del cielo”, si erano suicidati seguendo l’invito del guru. Era stato loro garantito che la cometa di passaggio sulla Terra contenesse un’astronave aliena che ne avrebbe prelevato le anime per farle ascendere a uno stato di esistenza superiore. Davvero si può rinunciare alla vita per un convincimento del genere? Se continuiamo a voler ragionare e far ragionare non ci arriviamo. Esiste un punto di non ritorno. Thierry Huguenin, sopravvissuto al suicidio di massa del “Tempio del Sole”, mi raccontò che lui e altri si erano accorti che le apparizioni evocate dal guru erano ologrammi proiettati nel bosco, ma era troppo tardi, si erano tagliati i ponti alle spalle, non potevano tornare indietro, oltre il confine scavalcato, al paese della logica. Avevano creduto troppo, sostenuto troppo: nell’assenza di senso trovavano il loro residuo senso.
Si ha l’impressione che questo valga per molti, che quello che hanno affermato sia diventato quel che sono e che smettere di affermarlo sia per loro il vero non essere più. Contribuisce il fatto che si confonda la reputazione con l’esistenza. Che se si è diventati noti per aver dichiarato certe cose in pubblico, a un programma radiofonico o in un bar sotto casa, rinnegarle sia il vero suicidio, la cancellazione di sé. È un grosso equivoco pensare che noi siamo le nostre idee: occorre un corpo che le sostenga, una voce che le diffonda, un braccio che ne mostri il simbolo. È un altro errore ritenere che si muoia solo per idee giuste. È il tranello della toponomastica: vie e piazze sono intitolate a martiri del bene, a cristiani nell’arena, patrioti sulle barricate, eroi civili che si sono sacrificati per salvare vite altrui. Si muore, eccome, anche dalla parte sbagliata della storia, di più: da quella insulsa, per convincimenti folli, per il male altrui e, più sovente di quanto si possa immaginare ( poiché non ne resta traccia) per niente. Ci sono religioni che proibiscono le trasfusioni di sangue, leggende sull’effetto dei trapianti, si dice no alla salvezza perché si abita non soltanto in un altro spazio, oltre la frontiera della razionalità, ma in un altro tempo, arcaico eppur contemporaneo, un universo parallelo.
C’è ancora un’altra possibile spiegazione per la scelta dei No cura. Viene dal raffronto con un caso differente eppure simile: quello dei kamikaze dell’11 settembre. Uno di loro, di origine libanese, dopo aver fatto il rituale testamento, prima di prendere l’aereo che avrebbe dirottato per uccidere e uccidersi, telefonò alla moglie appena sposata in Germania, dicendole che aveva preparato una grande festa con la famiglia a Beirut di lì a pochi giorni, che il padre aveva regalato loro un’auto, che sarebbero stati felici. La voce non s’incrina mai, è sereno, vede il futuro. E sta per morire. Di nuovo, universi paralleli, credere di poterli abitare entrambi. Nella determinazione di chi rifiuta le cure c’è la stessa scissione tra la conseguenza che non può non essere percepita e la rimozione attuata da un’intenzione che travalica la realtà. È l’incubo dell’ortodossia, che annuncia la notte di individui e, sommandoli, di popoli. È la pretesa del destino come volontà. E se non si conforma, non sarà accaduto. È la storia come non è mai stata, non scritta dai perdenti, ma riscritta in divenire dalla torme di quelli che si sono persi.