la Repubblica, 4 gennaio 2022
Ritratto di Alberto Ronchey
La “sindrome da accertamento” è quella forma particolare di ansia che in genere assale il giornalista, e lo costringe, prima di licenziare il pezzo, a verifiche supplementari di fatti, circostanze e dati. Per Alberto Ronchey, giornalista autorevole, intellettuale e “spectateur engagé” della vita civile e politica, quella sindrome, come lui l’aveva definita, si era risolta in un abito mentale, nella condizione naturale in cui dovrebbe trovarsi ogni cronista, una volta padrone della notizia. Quello che ai detrattori poteva sembrare masochismo (“l’Ingegnere”, lo aveva deriso la penna corrosiva di Fortebraccio, corsivista de l’Unità: ma aveva il sapore di un apprezzamento agrodolce) era in lui uno scrupolo estremo, il rispetto non formale del lettore verso il quale avvertiva il dovere di un’informazione chiara, documentata, senza fronzoli. La sua prosa asciutta ed elegante si era formata negli anni tempestosi del dopoguerra. Quando il giovane Ronchey, fresco di laurea in giurisprudenza, entrò a studio dall’avvocato Giovanni Conti, allora uno dei più prestigiosi esponenti, con Randolfo Pacciardi, del Partito Repubblicano italiano. Nella lotta politica era entrato qualche mese prima, partecipando alla guerra partigiana, fino alla liberazione di Roma. La Voce repubblicana, che diresse per qualche anno, fu la porta d’ingresso nel giornalismo.
Fu la successiva collaborazione con Il Mondo di Mario Pannunzio, durata fino alla chiusura della testata, nel 1966, a irrobustire la sua istintiva vocazione “terzaforzista”, lontano dalla due “chiese” ideologiche della Dc e del Pci. Poi, in rapida successione, il passaggio a L’Informazione, il Resto del Carlino, quindi corrispondente da Mosca per La Stampa di Giulio De Benedetti e poi inviato speciale per il Corriere della Sera di Alfio Russo. Sul Corriere e su Repubblica ha continuato negli ultimi anni a sviluppare le sue analisi, a indagare i grandi cambiamenti nel mondo, di cui spesso arrivava solo una debole eco nella nostra informazione. Scalfari confezionò per lui una rubrica, “Diverso parere”, come a sottolinearne l’originalità delle analisi rispetto al mainstream. Non amava troppo la politica italiana, e dopo qualche anno gli pesava come un tabarro d’estate la redazione della nota. «Detesto la politica – confessò, in un’intervista autobiografica a Pierluigi Battista – fatta delle continue manovre di schieramento, dello schieramentismo. Uno schieramentismo esorbitante, verboso. Io sono un empirista viscerale». Schieramentismo è stato solo l’ultimo neologismo coniato da Ronchey, una autentica passione per l’inventore di termini come “lottizzazione”, riferito alla divisione delle nomine in Rai sulla base delle appartenenze di partito; o di “fattore K”, per indicare nel legame con l’Urss l’ostacolo insuperabile per il PCI di costituirsi alternativa democratica e credibile alla Dc.
Il giornalista puntiglioso, con il taccuino sempre zeppo di dati e di notizie, magari inservibili per il “pezzo” del giorno, fece presto a vestire l’abito del saggista. Per uno che preferiva «un giornalismo concettuale, più portato ai fatti e alle idee che alle atmosfere», si trattava di una scelta impegnativa, implicando, con la valutazione meticolosa di fatti e di dati, giudizi critici e talvolta aspri verso i governanti di turno. Nell’Italia degli anni ‘60-‘70 il potere dei partiti si andava consolidando, fino a degenerare nella partitocrazia (neologismo sfuggito a Ronchey, coniato da Giuseppe Maranini): l’ “Ingegnere” andò a occupare la sua comoda posizione scomoda. Scomoda come quella di Ugo La Malfa, suo interlocutore nell’Intervista sul non- governo, estrema denuncia del leader repubblicano contro una classe politica che aveva abdicato a ogni sforzo di modernizzazione dell’Italia, preferendo coltivare i propri interessi elettorali. La sorte imprevedibile riportò per due anni Ronchey sulla scena politica. Con i governi Amato e Ciampi, fu ministro dei Beni culturali e ambientali. Sua è la legge che aprì i Musei italiani alla presenza di iniziative private. Dal 1993 anche in Italia fu possibile visitare una mostra e prendere un caffè o mangiare un panino. Grande amico di Raymond Aron, Ronchey tradusse l’intervista autobiografica del saggista francese: Le Spectateur engagé.«Avevo deciso di essere – spiegava Aron – uno “spettatore impegnato”. Spettatore, nello stesso tempo, della storia che si svolge, impegnandomi a essere il più obiettivo possibile, evitando di essere troppo distaccato, ed essere impegnato. Cercavo di combinare la duplice attitudine di spettatore e attore». Un autoritratto in cui poteva riconoscersi Alberto Ronchey.