la Repubblica, 4 gennaio 2022
Sprechen sie dialetto?
Nel 1951, subito dopo la laurea alla Normale di Pisa sono andato a Zurigo con una borsa di studio di ricercatore in Filologia romanza, divenendo assistente di un grande romanista come Reto Raduolf Bezzola, decano della facoltà di Lettere. Aveva scritto sulle origini della letteratura cortese in Occidente, su Dante, e su Leopardi. In seconde nozze aveva sposato Jacqueline Isabelle de Pury, una nobile ginevrina, elegantissima e spocchiosissima. Nel reparto insegnava anche Arnald Steiger, fondatore degli studi ibero-romanzi in Svizzera. Un altro filologo, studioso di Dante, era Theophil Spoerri, amante della critica stilistica, vicino a Vossler e a Spitzer. Di questi, proveniente dall’America, nel 1959 avrei curato per Einaudi Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna. Nei seminari mi occupavo di letteratura provenzale, e tradussi tutto Arnaut Daniel, che ebbe successo tra i lettori, e forse è rimasto nascosto da qualche parte. Collaboravo con qualche articolo alla Zürcher Zeitung, e al Journal de Genève. A Ginevra conobbi Starobinski, che era di origini polacche.
Consideravo Gianfranco Contini un dio, ed ero andato a trovarlo a Domodossola, nella casa del padre capostazione. Insegnava ancora a Friburgo, e solo nel 1952 sarebbe passato all’Università di Firenze, e poi alla Normale di Pisa. Avevo imparato moltissimo dalla sua edizione delle Rime di Dante; stava curando i poeti del Duecento in due grossi volumi, che giunsero a Cino da Pistoia, per Ricciardi, nella collana di Raffaele Mattioli. Contini mi fece conoscere i suoi colleghi, i suoi amici, i suoi allievi, lo straordinario padre Giovanni Pozzi, per esempio.
Contini ebbe l’idea, con Gerhard Rohlfs, di mandarmi da lui a Monaco di Baviera. Era ancora il 1951, quando su loro suggerimento, mi iscrissi alla facoltà di Lettere romanze dell’Università di Monaco, ancora ricoperta di rovine e di neve. Non fu così semplice. Poiché l’insegnamento in Germania era semestrale, ai periodi di insegnamento all’estero avrei alternato quelli nella scuola italiana, e iniziai da Frascati, come modesto professore all’Avviamento professionale. Mi divertivano molto quei ragazzi spesso stravaganti, rozzi ed elementari. Mi appassionava spiegare loro I promessi sposi o I fratelli Karamazov o libri avventurosi.
Nell’aprile del 1953 mi sposai a Roma. Negli anni Sessanta sarei approdato a via Lutezia, mentre compravo in Maremma la Castellaccia, dove sarebbe venuto Contini con la moglie Margarete Piller, molto simpatica, anche lei filologa romanza, di cui Contini si era innamorato di colpo in un suo seminario a Mannheim: vittima delle ossessioni di un marito che si tappava di notte nel caldo torrido, costringendola sul terrazzo; e, non sapendo nuotare, bagnava delicatamente nel mare i fragili piedi.
A Monaco, con Rohlfs, vissi con grande felicità in un quartiere incantevole. Dapprima in Montenstrasse, poi in Romanstrasse, ambedue vicino al fiume. Insegnavo Italiano a quella Università come lettore di lingue latine, tra giovani studenti tedeschi che mi trattavano con ridicolo rispetto da maestro, sebbene ridacchiassero al mio tedesco. Avevano pochi anni meno di me. Avevo fatto amicizia anche con l’assistente di Rohlfs, Rudolf Baehr, studioso di Guittone d’Arezzo, di poesia medievale, di Chrétien de Troyes, che mi traduceva gli articoli che scrivevo. Incominciarono a venire tutti quanti da me in Italia: Baehr con moglie e figli, Rohlfs solo con la moglie. Prima a Cervo, dove ricordo Rohlfs tutto rosso di una insolazione, innamorato dei pomodori. E grandi abbuffate nei ristoranti, gavazzando dalla Liguria fino alla Toscana, nella nostra casa. Rohlfs un po’ grassotto o per dire in carne, non particolarmente spiritoso, ma con il suo bell’italiano; e quando venne Contini, volle che si parlasse di Croce, di cui non sapeva nulla. Rohlfs, che aveva scoperto la varietà dei dialetti italiani tra i prigionieri della Prima guerra, scambiandone alcuni per greci, e dal 1921 era sceso in Calabria, era uno di quei tedeschi innamorati dell’Italia come i tedeschi sono sempre stati, che tuttavia tornavano dopo le tragedie della guerra. Dei dialetti era ovvio che si discutesse. Rohlfs mi insegnava la lingua meridionale italiana, mi faceva domande su quella piemontese e su quella ligure, che io conoscevo benissimo, sebbene non dichiarassi propensioni per i dialetti. Rohlfs continuava ad arricchire il suo capolavoro: la Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, che sarebbe stata pubblicata in tre volumi da Einaudi tra il 1968 e il 1969, e ora la Crusca ristampa con il Mulino. Per me l’immersione di studi a Monaco, coincise con l’interesse per Goethe, che iniziai a studiare allora.
A Monaco, non posso dimenticare l’amicizia con i nostri vicini sassoni, la famiglia del Beschwetz, il maggiordomo del re di Sassonia deposto nel 1918, che custodiva gelosamente una foto di re Augusto Federico con dedica; aveva ricevuto in dono dal re poltroncine bianche in miniatura, come di bambini; con la loro vecchia macchina, mal funzionante, sfilavano negli anniversari sulla strada lungo il canale, esponendo la bandiera bavarese alla finestra: ricevevano le visite delle due figlie del re, e dei principi di Sassonia, con le loro galosce coperte di fango. Il Kronprinz Gugliemo di Prussia invitava mia moglie perché aveva bei cappelli, comprati da mia madre. Una parte della casa era stata di Kress von Kressenstein, il grande nobile che aveva combattuto sul Caucaso nel 1914, di cui restavano due figlie, la maggiore, vedova di guerra di Russia, e la minore, di cui si sentiva dalla stanza più piccola vicina, che faceva all’amore. I principi ereditari vennero in visita ai parenti italiani: gli Assia, ossia marito e figli di Mafalda di Savoia, morta nel 1944 a Buchenwald. Li scarrozzammo in macchina per tutta Italia. Rivedo Anna Monica Pia, nel tragitto fino a un paese interno del Lazio, Frosinone, di cui è entusiasta, mentre lei, appassionata di lirica, canta sempre Verdi. Sposata a Giuseppe Francesco d’Austria, era la figlia di Luisa d’Asburgo Lorena, Luisa di Sassonia, che in seconde nozze aveva sposato il musicista Enrico Toselli.
Dopo avere lasciato Monaco, mantenni i contatti con Rohlfs per diversi anni, ma più con Baehr, per cui l’ultima immagine che mi resta di Rohlfs è di lui scottato sugli scogli, la pelle completamente bruciata, o mentre mangia pomodori. Nel 1953 conobbi Carlo Emilio Gadda. Aveva scritto un libro bellissimo e poco conosciuto, il Diario di guerra e di prigionia, un capolavoro, che nel 1955 pubblicò da Sansoni. Lessi tutti i suoi libri, persino quelli immaginari, con una passione senza fine: con un’attenzione sillabica, con un entusiasmo che aumentava di giorno in giorno: chiacchieravo con lui e discorrevamo, mentre cercavo di suggere la sua immensa cultura: ma lo aiutavo moltissimo, più di quanto egli si sia accorto. Avrei voluto rifletterlo: cercavo di ripetere il suo formidabile senso della realtà, e il suo ancora più formidabile senso della irrealtà. Unire nel pensiero Gadda e Rohlfs, i quali si ignoravano reciprocamente, significa abbracciare i mondi della letteratura, e delle lingue che la rendono possibile.