Specchio, 2 gennaio 2022
West Side Story secondo Spielberg
Diciamo la verità, siamo rimasti tutti perplessi quando è circolata la notizia che Steven Spielberg avrebbe diretto un remake di West Side Story. Che bisogno c’è, era la domanda ricorrente, del remake di un classico? Tuttavia è sufficiente guardare le prime immagini di questo magnifico film per rendersi conto che il nuovo West Side Story ha un’urgenza legata all’attualità sociale e politica non solo newyorkese, e, sul piano personale, risponde a una scommessa difficile: intervenire sulla regia, l’unico elemento debole della prima versione, strepitosa sul piano della musica, delle coreografie e del libretto, rispettivamente di Leonard Bernstein, Jerome Robbins e Stephen Sondheim.
La ripresa dall’alto
Spielberg interviene proprio sulla messa in scena, e la sua unica ripresa dall’alto lascia senza fiato: i Jets e gli Sharks si affrontano in un magazzino abbandonato, e la luce alle loro spalle ne trasforma le ombre in coltelli. È stupefacente la naturalezza con cui realizza per la prima volta delle scene musicali, e con la sicurezza di chi conosce ogni potenzialità del linguaggio, evita scorciatoie di montaggio, come i dettagli a effetto di musical recenti quali Chicago. Sin dal primo balletto comunica l’impressione di danzare insieme ai protagonisti: è lo stesso approccio di Martin Scorsese in Toro Scatenato, che si trasformò in un terzo combattente sul ring. Al posto delle riprese aerei iniziali, dà inizio al film con immagini della demolizione del quartiere che si concludono con un poster che indica che lì sarebbe sorto il Lincoln Center. Si prende quindi la libertà di alcuni cambiamenti, spostando I feel Pretty nella parte finale, e sceglie il realismo, pur nelle convenzioni del genere musicale.
Un chiodo nell’orecchio
Una volta Sondheim mi raccontò che detestava la prima versione: «I protagonisti sono teppisti che dovrebbero incutere timore, ma sembra che la massima preoccupazione di Wise sia vestirli con colori perfettamente coordinati». Spielberg va in direzione opposta: nella prima scena uno dei componenti delle gang ha un chiodo conficcato nell’orecchio da un rivale, e, a differenza del film precedente dove ad esempio l’ebrea Nathalie Wood interpretava la portoricana Maria, rispetta la provenienza dei protagonisti, di cui racconta orgoglio e disperazione alla base dei loro futili e violentissimi scontri. C’è un ruolo anche per Rita Moreno, che nell’originale vinse un Oscar nei panni della focosa Anita: oggi interpreta la proprietaria del negozio intorno a cui ruota tutta l’azione, e non sarei sorpreso se a 60 anni di distanza vincesse un secondo Oscar, stabilendo un record inedito.
Eterna "Somewhere"
Ma il piacere dello spettacolo e l’ammirazione per uno strabordante magistero registico non possono mettere in secondo piano la motivazione più intima di un film con cui Spielberg continua il suo discorso sull’inesorabilità del progresso che si afferma spesso attraverso momenti opachi o dolorosi. Un esempio del primo tipo è Lincoln, dove racconta come il più grande presidente americano non abbia esitato a ricorrere alla corruzione per l’abolizione della schiavitù. Con West Side Story, riscritto da Tony Kushner pensando più a Romeo e Giulietta che al primo film, racconta invece come il sacrificio degli unici due spiriti puri offra la possibilità di redenzione a chi è dominato dall’odio. La nuova versione dell’ultima canzone, Somewhere, assume un’eco struggente e universale, ma è soprattutto un momento di grande cinema, che conferma quanto avesse ragione Pauline Kael, che al suo esordio scrisse sul New Yorker: «ho visto la nascita di un talento fenomenale».