Specchio, 2 gennaio 2022
Come brilla il logaritmo
Sono nata diverse settimane in anticipo dunque il mio segno zodiacale, che è pesci, avrebbe dovuto essere ariete, o forse addirittura toro motivo per cui non mi sono mai interessata di astrologia perché non avevo certezze iniziali. Inoltre, essendo mio nonno contadino in un paese di mare, quegli animali – l’ariete, il toro, e i pesci – non avevano niente di attraente. Erano quotidiani. Dunque non mi fidavo di chi voleva interpretare il futuro a partire dalla mia aia, io speravo che il mio futuro sarebbe stato oltre i confini del pollaio e della stalla. Insomma, quei segni mi parevano una maledizione più che una indicazione.
Lo Zodiavo e i cartoni
La mia predisposizione era cambiata quando, dopo aver visto il cartone animato e per saperne di più della scimmia pestifera che si aggirava in estremo oriente combinando guai, mi ero ritrovata a leggere Scimmiotto di Wu-Cheng-En (Adelphi, traduzione di Adriana Motti, 1971), lì comparivano altri segni più interessanti, come il drago, la tigre, il serpente e la scimmia stessa che quanto meno erano esotici (c’erano anche i conigli e i cavalli ma fingevo di non vederli, come mi disinteressavo al Sagittario del nostro oroscopo nonostante fosse indubbiamente una figura mitica). E sempre grazie ai cartoni animati mi ero riavvicinata al nostro oroscopo, sui canali locali passavano I cavalieri dello Zodiaco. Nonostante le difficoltà di seguire le loro avventure – le puntate ricominciavano da capo arrivate alla quinta o alla sesta, e la frustrazione di tutto ciò è stata eternata per sempre da Zerocalcare dunque inutile che dica niente perché userei le sue parole –, nonostante la difficoltà di seguire le loro avventure dicevo, lo zodiaco nelle armature d’oro di questi ragazzi mi pareva una cosa finalmente distante dall’aia di mio nonno e di mia nonna e qualcosa dal quale farsi indicare la strada.
Non è una frode
Infine, la sensazione che l’astrologia non fosse una frode ma un sistema di interpretazione del mondo le cui verità sono assolute e transeunti come tutte le nostre verità è sopraggiunta nel 2003, quando Einaudi ha pubblicato L’imitatore di Hari Kunzru (traduzione di Susanna Basso, vedo ora che è stato ripubblicato lo scorso anno per Il Saggiatore) un incredibile, bellissimo romanzo che comincia con la descrizione del piano astrale del protagonista. Come al solito, come Dante ha scritto secoli prima che si parlasse di campo gravitazionale e gravità quantistica, è l’amore che muove il sole e le altre stelle e che ci cambia. Poiché mi ero innamorata del protagonista, credevo a lui e a ciò che accadeva nel romanzo. Credevo ai segni nel cielo e a quelli sulla terra. Credevo che ci fosse una corrispondenza e questa corrispondenza si potesse imparare e interpretare.
Il cielo in un pollaio
Quando ero già una donna adulta, nell’anno in cui è uscito, ho letto Il Cacciatore Celeste di Roberto Calasso (Adelphi, 2016) nel quale, tra le altre cose, si legge che i riti di caccia hanno proiettato gli uomini e gli animali nel cielo, e questa cosa mi aveva definitivamente riconciliato con l’aia di mio nonno e con la mia infanzia. Perché se l’aia viene proiettata in cielo, allora anche il cielo si proietta nell’aia e dunque i desideri non sono lontani, ma sono a portata di mano. Nella geometria dei nostri movimenti e non altrove. I desideri, questo dicevano quelle proiezioni, in un verso e nell’altro, sono cose possibili. Non disperare, desidera. «Con la pastorizia e l’agricoltura, l’animale era soltanto animale, separato per sempre dall’uomo. Per i cacciatori, invece, l’animale era ancora un altro essere, né animale né uomo, cacciato da esseri che non erano né animali né uomini», ha scritto Calasso. Un’ultima cosa matematica. Prima che Nepero, astronomo e matematico scozzese, introducesse i logaritmi, i calcoli astronomici erano lunghissimi. Il logaritmo che trasforma le moltiplicazioni in somme, le divisioni in sottrazioni e le potenze in moltiplicazioni. Senza Nepero tutti i matematici e gli astronomi avrebbero rinunciato a costruire il mappamondo dell’universo visibile, malinconicamente, per la noia di calcoli estenuanti.
Una luce nella notte
Ogni volta che guardavo il cielo o che disegnavo sui bordi dei quaderni le costellazioni, mano a mano che l’anno passava, sapevo che senza i logaritmi quell’universo che tanto mi era caro avrebbe avuto forse un’altra forma. E questo mi era insopportabile. Osservando le stelle a occhio nudo o con telescopi le cui lenti confondevano più che mettere a fuoco, gli astronomi si stranivano quando le orbite di certi pianeti o certe stelle che da sempre parevano regolari, cambiavano, si ammaccavano o si gonfiavano. Una deviazione indicava la presenza di una massa che però nessuno vedeva. Gli astronomi passavano il tempo a calcolare la posizione di una stella eventuale per osservarla in un periodo dell’anno più favorevole. Ma i calcoli erano complicati, così che prima dei logaritmi, quelle stelle oscure non solo erano invisibili, erano spaventose. Con l’avvento dei logaritmi, la notte ha cominciato a riempirsi di corpi celesti, ancora invisibili, ma la cui esistenza era sulla carta, veniva annunciata dai calcoli. Per questo mi piacciono i logaritmi e ogni volta che rientrando a casa, in qualsiasi periodo dell’anno, vedo le lucette di Natale accendersi e spegnersi intorno alla libreria, penso ai logaritmi che hanno acceso l’universo.