Specchio, 2 gennaio 2022
Tutto inizia e finisce in una stella
Nella Storia della fisica di J.D. Bernal si legge che «Keplero era il matematico dell’imperatore Rodolfo II di Germania e il suo compito era quello di fare dei buoni oroscopi». Ora, non doveva essere, per quel che è dato immaginare, una diminutio nei confronti del grande astronomo o, come accadeva per altri tipi di arti, solo un vezzo principesco al quale il buon studioso si piegava perché stipendiato, no: Keplero, quello delle tre leggi de L’astronomia nova, era convinto che l’armonia dei moti fosse la perfezione del mondo e trovasse una sua corrispondenza diretta nell’anima. Del resto l’inizio del cristianesimo viene segnato in cielo con una stella cometa, e come neofiti stiamo noi, del mondo occidentale così illuminato, quando in estate una campagna buia, una spiaggia, una terrazza ci permettono l’osservazione del cielo stellato. Non ce lo aspettiamo così luminoso e basso, così invaso di punti, con disegni che peschiamo dalla memoria. Un nonno, una madre, qualcuno nell’infanzia che ci insegnò a riconoscere le costellazioni, la via lattea, che tentò di metterci in contatto con la parte aerea della porzione di universo che abitiamo. Aspettiamo di vederne cadere una per affidarle un desiderio: nessuno smentisce Keplero. Tutti sappiamo, anche se Kant lo ha detto meglio per tutti noi, che c’è un alto e un basso, un fuori e un dentro, che le dualità non sono mai frattura ma ricomposizione e dunque per ammettere una legge dentro di sé ci deve essere un cielo stellato lì su.
Nel nome degli astri
Lì su, dove avidamente guarda il più straziante dei canti di Leopardi, quello notturno in cui si chiede se non sarebbe più felice a staccarsi dal suolo per conoscere i nomi di ogni astro, e «noverar le stelle a una a una». E’ lui che affida alle stelle l’inizio delle Rimembranze, dei ricordi, ovvero affida loro l’abbrivio del poeta, il momento in cui egli finalmente - non come personaggio pastore o disperato uomo ma come artista - si stacca davvero dal suolo e lì, nell’empireo della proiezione ci arriva con i versi, le chiama, per raggiungerle: «Vaghe stelle dell’Orsa» e più avanti tornano: mirabili. «O mirabili stelle dell’Orsa, io non pensavo proprio che, come una volta, sarei tornato a contemplarvi splendenti sul giardino di casa mia». Io non pensavo proprio.
La direzione del poeta
Le stelle ci orientano nel mondo e anche chi non va per mare e non saprebbe riconoscerle a questo scopo ha ereditato questa consapevolezza, sa che le stelle celebrano lo spazio e il tempo, che a esse l’uomo si affida per sapere che ore sono, in che stagione ci troviamo, e dove stiamo andando. Le stelle ci danno la direzione. E la danno, ancora, ai poeti, e dunque a noi. Il poeta affida l’esegesi del verso suo alla nozione e a Ulisse fa dire che «tutte le stelle già dell’altro polo vedea la notte, e il nostro tanto basso che non usciva fuor del marin suolo» per spiegare che erano arrivati oltre l’equatore nell’emisfero australe. Bisogna saperlo ma sta là e anche il lettore che non sapesse ricavarne il senso ne mutua un sentire rassicurante, come sono tutte le cose cicliche, oppure un senso di precipizio verso l’ignoto. Si affidano cioè alle stelle gli afflati del cuore.
L’inferno è "sanza stelle"
Perché? Perché sono belle. Brillano nella notte e se la notte è il luogo dello spavento, del sonno ovvero della morte, allora le stelle tengono accesa la speranza. Infatti è nell’Inferno che l’aere è sanza stelle: non vi è più neppure quel conforto, nulla a cui guardare aspettando l’alba. La luce massima, liberatoria, ciò che determina l’azione, l’incipit è ancora una stella, la più vicina. Da essa dipendiamo, da essa dipende il pianeta e questa consustanzialità non può non dare conseguenze, anche se sfugge alla razionalità. Anche l’uomo del sistema tolemaico si sedeva al sole, chiudendo gli occhi, per lasciarsene riscaldare. All’inizio del Faust di Goethe, il prologo in cielo, il sole va tuonando, come suo costume e la sua luce dà forza agli angeli anche se nessuno può penetrarla fino in fondo e le sue opere sono magnifiche come il primo giorno. E così via, ché l’identificazione del sole con il divino è di tante religioni e ripresa in tanti poemi, quasi tutto il libro terzo del Paradiso perduto è dedicato a questo.
Puntiformi e romantiche
Ma torniamo alle stelle nella loro accezione puntiforme, ché sono romantiche. Sono belle, si diceva e se sono belle diventano il termine di paragone per ciò che è bello: la grazia, l’incontro, l’amore. Ancora nell’Inferno c’è qualcosa che brilla: è la comparsa del femminile nella commedia, più umana che divina, nel viaggio difficile, doloroso, eppure sempiterno, che ci è dato di fare. Beatrice con imperio gli parlerà, e lui, vedendola dice che «lucevan gli occhi suoi più che la stella». Gli occhi di chi amiamo, ai nostri occhi, valgono quel cielo stellato: in essi ci si perde allo stesso modo, sono brillanti, raccontano di un altrove che la banalità della vita ottunde. Il poeta deve per sua missione richiamarlo, l’amore deve, per sua natura, tornare a rivelarlo. Contro la notte c’è la stella, contro la morte c’è l’amore con occhi di stella. E così anche più semplicemente e allegramente, da Cavalcanti al neomelodico le stelle sono l’unità di misura della bellezza. Cavalcanti si diverte: alla fine gli elementi per far all’amore con la pastorella ci sono tutti: il bosco, e un certo ammiccamento di lei che gli dice chiaramente che se sentirà il canto dell’uccello lei vuole un amante. Lui, finalmente libero dall’amor cortese accetta il gioco, ma siccome da quelle rime viene, non ce la fa, e per descrivere la nostra pastorella: «In un boschetto trova’ pasturella più che la stella – bella, al mi’ parere». Insomma: in italiano fa rima facilmente, d’accordo, ma pure "sella" fa rima con bella, solo che non rimanda a quell’incantamento di cui si diceva all’inizio. A quello stupore a cui nessuno può sottrarsi.
Solo tre minuti
È l’alba. E’ il terzo atto della Tosca. Da lontano si sente un giovane pastore cantare una malinconica canzone in romanesco. Sui bastioni di Castel Sant’Angelo Mario Caravadossi è ormai pronto a morire e inizia a scrivere un’ultima lettera d’amore a Tosca, ma non riesce a finirla, non riesce perché ogni volta che rievoca la sua immagine, cioè l’immagine del loro amore, ama troppo la vita, e si può certo accettare di morire, ma morire quando si è innamorati è troppo, è una contraddizione. Si possono avere tanti giudizi di Puccini, e certo ci sono esecuzioni migliori di altre e tenori di vario livello, ma sottrarsi allo strazio di quell’aria è impossibile. Sono tre minuti, si trova facilmente sul web (una di Pavarotti al Teatro dell’Opera di Roma nel 2000), si affronta senza rimmel: «E lucevan le stelle».