La Stampa, 3 gennaio 2022
Un saggio sul sonno, la veglia e i sogni
L’idea che la vita confini con il sogno attraversa come un’angoscia (e quasi mai come una possibilità di riscatto) una lunghissima tradizione che va dall’antichità ai giorni nostri. La letteratura e la filosofia hanno spesso dato voce a questo volto ricorrente dell’immaginario o addirittura lo incarnano con autori come Calderón de la Barca e Schopenhauer. Che mai accadrebbe se portassimo le cose all’estremo e affermassimo che il cammino che faticosamente stiamo attraversando è in realtà un’esperienza onirica? Se così fosse l’apparente coerenza delle nostre esperienze e il modo in cui ci comportiamo perderebbero improvvisamente di senso e di consistenza, e certamente ci chiederemmo se il dramma della nostra esistenza abbia un regista, e chi egli sia. Lo scambio dei ruoli tra il sogno e la veglia si raccoglie un lunghissimo e affascinante percorso sul quale si sofferma Gianluca Garelli in un libro davvero importante, Sogni di spiriti immondi. Storia e critica della ragione onirica, comparso ora da Einaudi.
È un tema che percorre la storia filosofica e letteraria, tutto il nostro passato quantomeno a partire da Epimenide di Creta il quale - così narra Diogene Laerzio - mandato dal padre in campagna si arrese alla fatica e si concesse una pennichella durata addirittura cinquantasette anni. Tornato a casa si trovò molto sperduto e a disagio. Naturalmente, tutto questo imbarazzo potrebbe anche far affiorare il timore che il sonno e il sogno possano profeticamente anticipare la realtà della veglia. In altri termini, affidandoci all’esperienza onirica, facendoci guidare da questa, riconoscendole, come modernamente iniziò a fare Freud, la realtà che le compete, si realizza un’inversione traumatica tra apparenza e realtà. La ragione onirica viene tradizionalmente avvertita come minacciosa e subisce storicamente - dice Garelli - una sorta di immunizzazione, di sterilizzazione del potenziale di verità che essa esprime. Ancora oggi il discorso comune riflette questo atteggiamento per cui il sogno esprime qualcosa di irreale e di irrealizzabile. Si esclude che esso metta in opera un progetto sul futuro come l’Antico Testamento e ancora i romantici, Novalis in particolare, profetizzavano. Lo scambio dei ruoli è vietato, e se lo si tenta si va incontro a un rischio mortale, come rivela il tragico destino di Madame Bovary che prende per realtà i sogni suscitati dai suoi romanzi. Il sogno e la morte vengono qui a sovrapporsi. Incombe, sotterraneo, un incubo. Se davvero volessimo invertire i ruoli tra la vita e il sogno, avremmo in fondo a che fare con una cancellazione dell’effetto di realtà simile a quanto avverrebbe se si aprissero le porte del regno dei morti e i fantasmi si riversassero nel nostro mondo. È probabile che tutto ciò abbia a che fare anche con l’idea della morte quale cadavere che contraddistingue il nostro mondo e la nostra tradizione. Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, scrive che «non c’è nulla di più difficile che tenere fermo il mortuum». È evidente che qui interviene un interdetto che percorre la tradizione occidentale e non per esempio alcune culture africane nel quale il morto non è il cadavere e il transito tra i due mondi è consentito. Il timore segreto è che, invertendo il tragitto tra la vita vera e il sogno, finiremmo per produrre un nebulizzarsi della realtà uguale a quello che si profilerebbe se si aprissero le porte del regno dei morti e, dalle sponde dello Stige, provenisse un’invasione di fantasmi.
Il pensiero occidentale si è in parte costruito sulla contrapposizione fra veglia e sonno quale distinzione fra chi filosofa e chi non lo fa (o non è in grado di farlo): la luce della conoscenza contro l’aspetto notturno, oscuro, che ne profila l’ombra e il confine, e che il sapere ha il compito di combattere e, possibilmente, di rischiarare. È vero, riconosce Aristotele, che sonno e veglia, in quanto opposti, appartengono alla medesima parte dell’animale, e che entrambi sono necessari alla preservazione della vita, ma «il fine è la veglia», e il sonno in questo senso è pura mancanza, «una certa privazione della veglia»: a quest’ultima spetta il primato. La vicenda di questo contrastato primato viene percorsa da Garelli in un articolatissimo e quanto mai affascinante itinerario che va da Shakespeare e Calderón a Cartesio, a Spinoza, Locke, Hume, Goethe e il romanticismo e giunge al nichilismo, al grande timore, coltivato dall’Occidente maturo e ormai stanco di se stesso a partire dall’Ottocento, che la realtà abbia perduto ogni consistenza, e sia stata distrutta dall’immaginazione tecnologica. Si tratterebbe di un particolare tipo di rêverie assai distruttiva che prefigura come un incubo ciò che diverrà realtà quotidiana: l’universo virtuale. Nel mondo d’oggi, per Garelli, la terza dimensione che si è aggiunta a quella usuale non nasce dal nulla ma da un immaginario collettivo coltivato nei secoli che ha attraversato i confini tutt’altro che confusi del sogno, per entrare nella realtà grazie alle possibilità offerte dalla tecnologia contemporanea. Davvero, per dirla con Calderón, oggi «la vita è sogno». Ma questo non ci deresponsabilizza affatto.