La Stampa, 3 gennaio 2022
Francesco Schettino detenuto modello
«La gente forse non ci crederà, ma anche io ho i miei incubi. Non ho dimenticato le trentadue vittime della Concordia, ma neppure ho dimenticato di essere stato trattato come un capro espiatorio». Ecco l’amarezza più profonda di Francesco Schettino, 61 anni, ex comandante della Costa Concordia naufragata di fronte all’isola del Giglio dieci anni fa, il 13 gennaio 2012. Da oltre 4 anni e mezzo è detenuto nel nuovo complesso del carcere di Rebibbia per scontare la condanna a 16 anni per omicidio colposo plurimo, naufragio colposo, lesioni colpose plurime, abbandono nave, false comunicazioni.
In realtà, in virtù del periodo pregresso di custodia cautelare, la condanna ammonta a 15 anni, sei mesi e sette giorni. Quindi dopo il prossimo 17 maggio, allo scadere dei 5 anni, ovvero di un terzo della pena, Schettino potrà chiedere di essere ammesso a misure alternative rispetto alla detenzione in prigione. «Intanto aspetto la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per la revisione del processo che dopo 4 anni ancora non si è espressa in merito. E non posso nascondere la mia perplessità per un tempo di attesa così lungo».
Le riflessioni dell’ex ufficiale ci vengono riportate dal suo avvocato Donato Laino, che insieme al collega Saverio Senese fa parte del pool difensivo che si sta occupando anche della richiesta di revisione del processo.
«Il comandante Schettino ha fatto e sta continuando a fare un percorso psicologico non facile - sottolinea l’avvocato Laino -. Anche lui in fondo è un naufrago, pensa e ripensa a quella maledetta notte e a quei trentadue morti. Lui è l’unico a pagare con il carcere, ma la verità è che all’origine del naufragio c’è stato un errore organizzativo. Si è voluto cercare un colpevole, non la verità».
Un colpevole. Un capro espiatorio, appunto, come sostiene Francesco Schettino, soprannominato anche capitan Inchino per quella spericolata manovra del l’inchino davanti al Giglio che portò la nave a schiantarsi irrimediabilmente sugli scogli delle Scole.
«Sono stato vittima di un processo mediatico prima ancora che giudiziario» è il suo pensiero. E non a caso, infatti, nel nuovo complesso di Rebibbia Schettino frequenta due corsi universitari: uno in giurisprudenza e l’altro in giornalismo. Due ambiti che vuole approfondire il più possibile perché è proprio dal mondo giudiziario e da quello giornalistico che si è sentito preso ingiustamente di mira. Nel frattempo però manca ancora una risposta esaustiva alla domanda più importante: perché l’allora comandante Schettino abbandonò la nave invece di organizzare i soccorsi? Nella memoria collettiva risuona ancora quel monito perentorio dell’ufficiale operativo della Guardia Costiera, Gregorio De Falco: «Salga a bordo, c…».
Sono trascorsi 10 anni. Schettino, intanto, si comporta in cella come un detenuto modello. Il cappellano del carcere, don Lucio Boldrin, ha parole di elogio nei suoi confronti: «È molto gentile e rispettoso nei confronti degli altri detenuti ai quali non ha mai fatto pesare il ruolo che ricopriva prima dell’arresto. È molto impegnato nel seguire i due corsi universitari e trovo che questo suo atteggiamento sia edificante. Mi ha infatti detto che non vuole buttare via il tempo che h in carcere e che quindi lo usa per finalità rieducative».
Il tempo in carcere non passa mai. Ma Schettino oltre allo studio si dedica molto anche allo sport, grazie alla presenza di una palestra attrezzata, alle letture in inglese e alla collaborazione con il giornale cartaceo interno "Dietro le sbarre". «Si pone sempre con un atteggiamento impegnato e proficuo - prosegue il cappellano - ed è ben voluto dagli altri detenuti. Per fortuna negli ultimi mesi sono ripresi i colloqui con i parenti, perché per colpa del Covid ci sono stati 500 giorni di isolamento. Schettino aspetta sempre con trepidazione gli incontri con la figlia Rossella».
Quest’ultima, peraltro, ha aperto un canale You tube per pubblicare dei video girati insieme al padre per dimostrare che esistono altri responsabili del naufragio. «Mio padre - spiega su Facebook - in tutta questa vicenda è rimasto solo fin dal primo momento in plancia dove l’intero bridge team è mancato nel suo ruolo e nelle fasi più importanti della manovra e della gestione dell’emergenza». Di qui gli incubi in carcere. Ma come dimenticare l’incubo di quelle trentadue vittime, tra cui una bimba di 5 anni, spazzate via in una notte di 10 anni fa?