Corriere della Sera, 3 gennaio 2022
Vito Dell’Aquila dopo l’oro olimpico
Nell’estate del nostro godimento, Vito fu il primo. Con un calcio sferrato al tunisino Mohamed Jendoubi a 40” dalla fine del terzo e ultimo round della finale 58 kg, Vito Dell’Aquila da Mesagne, culla del taekwondo nostrano, ai Giochi di Tokyo ha stappato lo spumante e dalla bottiglia, a sorpresa, sono uscite quaranta bollicine: dieci d’oro, dieci d’argento e venti di bronzo. Prima della miracolosa messe dell’atletica azzurra (5 trionfi), Vito è stato il nostro Jacobs scalzo, pronto a menare i piedi sul ring per tenere viva la tradizione (Sarmiento argento a Pechino 2008, Molfetta oro a Londra 2012 con Sarmiento bronzo).
Com’è la vita da campione olimpico, Dell’Aquila?
«Uguale a prima, direi. All’inizio, appena tornato da Tokyo, sembrava che la mia vita fosse cambiata. Invece no. Dopo le interviste, l’entusiasmo, gli eventi, tutto è tornato uguale. Ma va bene così: ora posso concentrarmi sui prossimi appuntamenti».
Lo dice con una vena di delusione però.
«Eh sì, perché arrivato a un certo punto ti chiedi: ma io più che conquistare un oro olimpico cosa potevo fare? Rimango con i piedi per terra. I successi è bello conquistarli però rischiano di cambiare le persone: sono contento di non pagare quel prezzo».
Tornando indietro, cosa si poteva fare di diverso?
«Vorrei che i media si occupassero un po’ di più di taekwondo, non una volta ogni quattro anni. Per il movimento sarebbe utile essere seguiti alle gare, ottenere una maggiore copertura tv però, dai, un miglioramento c’è stato: gli Assoluti di Busto sono stati trasmessi da RaiSport».
L’amaro destino degli sport minori.
«Il taekwondo in Italia è praticato su tutto il territorio, certo al Sud di più perché la tradizione è forte».
Perché ha attecchito proprio a Mesagne, in Puglia, la sua città?
«Il maestro Roberto Baglivo, prima di dirigere la New Martial di Mesagne, viveva in Germania. È rimasto folgorato da questo sport di combattimento coreano: tornato a casa, se l’è portato dietro. La tradizione di Mesagne è nata così».
Tra Mesagne e l’Acqua Acetosa, a Roma, di quante persone stiamo parlando?
«Atleti di interesse nazionale siamo almeno 4/5 per categoria, che sono 8 per i maschi e 8 per le femmine, ridotte a 4+4 all’Olimpiade. A Mesagne tanti piccoletti hanno cominciato a praticare a settembre, ispirati dalla mia medaglia. È un grande orgoglio».
Resta il mistero di come suo padre Leo potesse essere così innamorato di Bruce Lee al punto da portarla al New Martial da bambino.
«Mica solo di Bruce Lee: di Jackie Chan, Rocky e di tutti i campioni degli sport da combattimento. Ho messo piede per la prima volta in palestra a 8 anni, non ne sono più uscito, però il mio idolo è Checco Zalone».
Amore a prima vista?
«Il taekwondo mi piacque subito perché mi permetteva di stare insieme agli altri bambini, poi mi ha conquistato la tecnica: i calci, i pugni, i salti. Il combattimento in generale, insomma».
Torniamo all’Olimpiade di Tokyo, a quel 24 luglio che non le ha cambiato affatto la vita. Era stata una vigilia come tante altre?
«No, stranissima: ero molto, troppo, rilassato. Al villaggio si avvertiva un’atmosfera di fratellanza che non avevo mai sperimentato. L’Italia aveva appena vinto l’Europeo di calcio, i Maneskin l’Eurofestival, fatti che mi lasciavano presagire che anch’io avrei potuto fare qualcosa di buono. Avevo ragione».
Come ha steso il tunisino in zona Cesarini, dopo essere stato sempre in svantaggio?
«Ho capito che Jendoubi era a corto di energie e ne ho approfittato».
Poi quella bella dedica al nonno, che a Tokyo sarebbe stata imitata da altri suoi colleghi.
«Sono stato chiamato Vito come il nonno paterno, tifoso sfegatato dell’Inter, che da bambino mi accompagnava agli allenamenti. La mia principale motivazione, in Giappone, era renderlo fiero, da lassù. Ha sempre creduto in me. Anche quando era poco lucido, già malato, diceva: Vito vince. Prima di salire in pedana per l’ultima sfida, il coach mi ha detto: Vito, pensa a tuo nonno. È una presenza che ho avvertito per tutta l’Olimpiade».
Che regalo si è fatto con il tesoretto dei 180 mila euro (lordi) destinati dal Coni all’oro olimpico?
«Non sono attaccato agli oggetti, ho comprato solo cose necessarie. Adoro penne e matite, passerei le ore in cartoleria. Dopo i Giochi ho preso la patente, quest’anno mi comprerò un’auto normale, non un macchinone».
Incontri speciali o messaggi da conservare dopo essere diventato campione olimpico?
«Mi è piaciuto frequentare gli altri atleti azzurri agli eventi a cui siamo stati invitati dopo Tokyo: condividiamo sacrifici e motivazioni, parliamo la stessa lingua. Quando ho incontrato i ragazzi della staffetta 4x100 d’oro, però, mi sono emozionato. Ho chiacchierato a lungo con Filippo Tortu, che è umile come me. E ho stretto una grandiosa amicizia con Valentina Rodini e Federica Cesarini, le ragazze del canottaggio: hanno vinto il secondo oro della spedizione italiana, quello dopo il mio, anche questo ci lega».
Cosa farà da grande, Vito?
«Il giornalista sportivo di taekwondo: i pezzi che non scrivete voi, li firmerò io».