Corriere della Sera, 3 gennaio 2022
Trump un anno dopo, il pericolo rimane
A quasi un anno dall’assalto al Congresso Usa del 6 gennaio 2021, pubblichiamo tre estratti dal libro-inchiesta «Pericolo» di Bob Woodward e Robert Costa, edito da Solferino e in edicola da domani con il Corriere della Sera.
***
«Abbiamo molto da fare
in questo inverno di pericolo».
Il Presidente Joseph R. Biden Jr.
«Abbiamo molto da fare
in questo inverno di pericolo».
Il Presidente Joseph R. Biden Jr.
nel discorso inaugurale al Campidoglio,
20 gennaio 2021
Alle 7.03 dell’8 gennaio 2021, due giorni dopo il violento assalto sferrato a Capitol Hill dai sostenitori del presidente Donald Trump, il generale Mark Milley, principale rappresentante delle forze armate del Paese e capo dello stato maggiore congiunto, fece una telefonata urgente su una linea top secret e criptata al suo omologo cinese, il generale Li Zuocheng, comandante dell’Esercito popolare di liberazione. Dai rapporti dettagliati cui aveva avuto accesso, Milley sapeva che Li e la leadership cinese erano rimasti allibiti e disorientati davanti alle riprese televisive di quell’attacco senza precedenti alle istituzioni americane.
Al telefono, Li sparò una raffica di domande. La superpotenza americana era instabile? Al collasso? Che stava succedendo? Sarebbero intervenute le forze armate? «So che da fuori la situazione può apparire precaria» rispose Milley, cercando di calmare il collega che conosceva da cinque anni. «Ma fatti simili rientrano nella natura della democrazia, generale. In realtà il nostro governo è solido al cento per cento. Va tutto benissimo. È solo che a volte la democrazia è confusionaria». Impiegò un’ora e mezza per cercare di rassicurarlo. Non era da Li agitarsi tanto, e il suo nervosismo poneva entrambe le nazioni sull’orlo del baratro. (...)
Milley sapeva per esperienza quanto Trump fosse impulsivo e imprevedibile. In aggiunta, era certo che l’esito delle elezioni avesse compromesso seriamente la sanità mentale del presidente, che manifestava crisi maniacali dando in escandescenze con tutti i rappresentanti del governo e costruendosi una propria realtà alternativa di infiniti complotti e brogli elettorali. (...) A che punto il susseguirsi degli eventi e le crescenti pressioni potevano indurre il capo dello Stato a ordinare un’azione militare? Designandoli comandanti in capo delle forze armate, la Costituzione aveva concentrato nelle mani dei presidenti americani poteri enormi, compresa la piena discrezionalità nella mobilitazione dell’esercito, una decisione che potevano prendere in ogni momento, e senza dar conto a nessuno.
8 gennaio 2021: contenere TrumpMilley non poteva escludere che l’assalto del 6 gennaio, così inconsulto e selvaggio, fosse solo la prova generale di qualcosa di più grosso. Perciò era concentrato sul conto alla rovescia, mancavano dodici giorni alla fine della presidenza di Trump. E lui era determinato a fare il possibile affinché il passaggio di potere avvenisse in modo pacifico. (...)
Stabilita la linea di azione, Milley convocò tutti i capi del National Military Command Center (NMCC), il consiglio di guerra del Pentagono, che viene riunito in caso di ordini operativi d’emergenza da parte della massima autorità di comando nazionale – cioè il presidente o il suo successore – in vista di un’azione militare o dell’impiego di armi nucleari. (...) Senza fornire spiegazioni, Milley dichiarò di voler ripassare le procedure e i processi per il lancio delle armi nucleari. Solo il presidente poteva dare l’ordine, ricordò ai presenti. Ma poi aggiunse a chiare lettere che quell’ordine non poteva essere eseguito senza coinvolgere il capo dello stato maggiore congiunto, cioè lui stesso. In base al protocollo esistente, era obbligatorio indire una teleconferenza cui, oltre al capo dello stato maggiore congiunto, avrebbero partecipato anche il segretario della Difesa e gli avvocati. (...) Specificò che la regola valeva per azioni militari di qualsiasi tipo, non soltanto per l’uso di armi atomiche. Il suo coinvolgimento era essenziale. (...) Poi fece il giro della stanza, guardando ciascuno dei presenti dritto negli occhi e chiedendo conferma che avessero capito.
«Ricevuto?» domandò al primo.
«Sissignore.»
«Ricevuto?» domandò al successivo.
«Sissignore.»
E così via, per ognuno di loro.
Attribuiva a quel «Sissignore» lo stesso valore di un giuramento.
(...) Stava sabotando il presidente? Qualcuno avrebbe potuto accusarlo di aver abusato della sua autorità, attribuendosi poteri straordinari.
Per parte sua, Milley restava convinto di aver agito in buona fede per prevenire il rischio di una frattura storica nell’ordine internazionale, di una guerra involontaria con la Cina o con altri Paesi, e di un ricorso all’arsenale nucleare.
Verso la sfida del 2022«Il suo problema è che fa troppo casino» disse Lindsey Graham a Trump nell’ennesima delle loro infinite e ormai consuete telefonate estive. (...) Graham ricordò a Trump che era dalla sua parte, sarebbe stato suo amico per sempre. Stava cercando di riabilitarlo. Chissà cosa poteva succedere se Trump fosse tornato in campo con un tono e un approccio ricalibrati. Lui rispose che i suoi sostenitori amavano la sua personalità. «Perderò la mia base, se cambio». Si aspettavano di vederlo lottare, di vederlo irrequieto. Era così. Non erano cazzate. L’elezione era stata rubata. (...)
Graham voleva spostare l’attenzione di Trump su Biden. Disse che le politiche del presidente erano disastrose e aprivano uno spiraglio per i repubblicani. Ma durante la campagna elettorale Trump non era riuscito a far capire all’elettorato chi fosse Biden, lasciando che l’avversario si raccontasse da solo. E stava succedendo di nuovo. «Chi meglio di lei può portare avanti il caso contro Biden?» disse Graham. «Ma non può farlo se continua a lamentarsi di aver perso. I media non sono dalla sua parte. Si fossilizzeranno su qualsiasi accenno al 2020 e non terranno conto di tutte le cose giuste che potrebbe dire sul fatto che Biden sta guidando il Paese nella direzione sbagliata. Se nel 2022 riusciamo a riconquistare la Camera e il Senato, gliene riconosceranno il merito. Se falliamo, credo che sarà la fine dell’era Trump. Il 6 gennaio sarà il suo necrologio. Se non vinciamo nel 2022, siamo fottuti».
L’opera incompiutaI presidenti vivono nell’opera incompiuta dei loro predecessori. Nessuno può saperlo meglio di Joseph R. Biden Jr.
Lui e i suoi collaboratori odiavano pronunciare il nome di Trump. (...) Ma l’esistenza di Trump permeava la Casa Bianca, e persino gli appartamenti presidenziali. Una notte Biden vagò fino a una stanza con un enorme schermo a tutta parete. Trump si rilassava con i videogiochi sui più importanti tornei di golf del mondo. «Che idiota» commentò una volta, esaminando i giocattoli dell’ex presidente.
Un altro presidente oppresso dalla pesante ombra del suo predecessore fu Gerald Ford nel 1974. Definì il Watergate un «incubo nazionale». Il Watergate scomparve, ma Nixon no. Nei suoi primi trenta giorni, Ford si sentì sempre più assediato mentre Nixon dominava le coperture mediatiche. «Avevo bisogno della mia presidenza» disse Ford in seguito. Il suo rimedio fu concedere la grazia a Nixon. Ford era convinto che fosse la scelta migliore nell’interesse nazionale e l’unico modo per disfarsi del passato di Nixon. La decisione fu accolta con sdegno generale e Ford perse la presidenza due anni dopo, una sconfitta dovuta in buona parte ai sospetti che avesse cercato di evitare la prigione al suo predecessore e mentore politico. Biden ha detto che non avrebbe mai graziato Trump, ma si è ritrovato di fronte allo stesso dilemma di Ford: come far andare avanti il Paese? Come conquistarsi la propria presidenza?
(...) Il 31 marzo 2016, quando Trump era a un passo dal vincere le primarie repubblicane, lo intervistammo (...). Riconoscemmo che era una forza politica straordinaria, un outsider, un anti-establishment (...). Ma notammo anche una certa oscurità. Sapeva essere meschino, cattivo. Annoiato dalla storia americana e con scarsa considerazione per le tradizioni di governo che avevano a lungo guidato i leader eletti dal popolo (...). «Il vero potere è – non voglio nemmeno usare la parola – paura» ci disse. «Riesco a fomentare la rabbia. Ci sono sempre riuscito. Non so se sia un punto di forza o di debolezza, ma è così».
Trump riuscirà di nuovo a imporsi? Ci sono limiti a ciò che lui e i suoi sostenitori potrebbero fare per riportarlo al potere?
Il pericolo rimane.
Alle 7.03 dell’8 gennaio 2021, due giorni dopo il violento assalto sferrato a Capitol Hill dai sostenitori del presidente Donald Trump, il generale Mark Milley, principale rappresentante delle forze armate del Paese e capo dello stato maggiore congiunto, fece una telefonata urgente su una linea top secret e criptata al suo omologo cinese, il generale Li Zuocheng, comandante dell’Esercito popolare di liberazione. Dai rapporti dettagliati cui aveva avuto accesso, Milley sapeva che Li e la leadership cinese erano rimasti allibiti e disorientati davanti alle riprese televisive di quell’attacco senza precedenti alle istituzioni americane.
Al telefono, Li sparò una raffica di domande. La superpotenza americana era instabile? Al collasso? Che stava succedendo? Sarebbero intervenute le forze armate? «So che da fuori la situazione può apparire precaria» rispose Milley, cercando di calmare il collega che conosceva da cinque anni. «Ma fatti simili rientrano nella natura della democrazia, generale. In realtà il nostro governo è solido al cento per cento. Va tutto benissimo. È solo che a volte la democrazia è confusionaria». Impiegò un’ora e mezza per cercare di rassicurarlo. Non era da Li agitarsi tanto, e il suo nervosismo poneva entrambe le nazioni sull’orlo del baratro. (...)
Milley sapeva per esperienza quanto Trump fosse impulsivo e imprevedibile. In aggiunta, era certo che l’esito delle elezioni avesse compromesso seriamente la sanità mentale del presidente, che manifestava crisi maniacali dando in escandescenze con tutti i rappresentanti del governo e costruendosi una propria realtà alternativa di infiniti complotti e brogli elettorali. (...) A che punto il susseguirsi degli eventi e le crescenti pressioni potevano indurre il capo dello Stato a ordinare un’azione militare? Designandoli comandanti in capo delle forze armate, la Costituzione aveva concentrato nelle mani dei presidenti americani poteri enormi, compresa la piena discrezionalità nella mobilitazione dell’esercito, una decisione che potevano prendere in ogni momento, e senza dar conto a nessuno.
8 gennaio 2021: contenere TrumpMilley non poteva escludere che l’assalto del 6 gennaio, così inconsulto e selvaggio, fosse solo la prova generale di qualcosa di più grosso. Perciò era concentrato sul conto alla rovescia, mancavano dodici giorni alla fine della presidenza di Trump. E lui era determinato a fare il possibile affinché il passaggio di potere avvenisse in modo pacifico. (...)
Stabilita la linea di azione, Milley convocò tutti i capi del National Military Command Center (NMCC), il consiglio di guerra del Pentagono, che viene riunito in caso di ordini operativi d’emergenza da parte della massima autorità di comando nazionale – cioè il presidente o il suo successore – in vista di un’azione militare o dell’impiego di armi nucleari. (...) Senza fornire spiegazioni, Milley dichiarò di voler ripassare le procedure e i processi per il lancio delle armi nucleari. Solo il presidente poteva dare l’ordine, ricordò ai presenti. Ma poi aggiunse a chiare lettere che quell’ordine non poteva essere eseguito senza coinvolgere il capo dello stato maggiore congiunto, cioè lui stesso. In base al protocollo esistente, era obbligatorio indire una teleconferenza cui, oltre al capo dello stato maggiore congiunto, avrebbero partecipato anche il segretario della Difesa e gli avvocati. (...) Specificò che la regola valeva per azioni militari di qualsiasi tipo, non soltanto per l’uso di armi atomiche. Il suo coinvolgimento era essenziale. (...) Poi fece il giro della stanza, guardando ciascuno dei presenti dritto negli occhi e chiedendo conferma che avessero capito.
«Ricevuto?» domandò al primo.
«Sissignore.»
«Ricevuto?» domandò al successivo.
«Sissignore.»
E così via, per ognuno di loro.
Attribuiva a quel «Sissignore» lo stesso valore di un giuramento.
(...) Stava sabotando il presidente? Qualcuno avrebbe potuto accusarlo di aver abusato della sua autorità, attribuendosi poteri straordinari.
Per parte sua, Milley restava convinto di aver agito in buona fede per prevenire il rischio di una frattura storica nell’ordine internazionale, di una guerra involontaria con la Cina o con altri Paesi, e di un ricorso all’arsenale nucleare.
Verso la sfida del 2022«Il suo problema è che fa troppo casino» disse Lindsey Graham a Trump nell’ennesima delle loro infinite e ormai consuete telefonate estive. (...) Graham ricordò a Trump che era dalla sua parte, sarebbe stato suo amico per sempre. Stava cercando di riabilitarlo. Chissà cosa poteva succedere se Trump fosse tornato in campo con un tono e un approccio ricalibrati. Lui rispose che i suoi sostenitori amavano la sua personalità. «Perderò la mia base, se cambio». Si aspettavano di vederlo lottare, di vederlo irrequieto. Era così. Non erano cazzate. L’elezione era stata rubata. (...)
Graham voleva spostare l’attenzione di Trump su Biden. Disse che le politiche del presidente erano disastrose e aprivano uno spiraglio per i repubblicani. Ma durante la campagna elettorale Trump non era riuscito a far capire all’elettorato chi fosse Biden, lasciando che l’avversario si raccontasse da solo. E stava succedendo di nuovo. «Chi meglio di lei può portare avanti il caso contro Biden?» disse Graham. «Ma non può farlo se continua a lamentarsi di aver perso. I media non sono dalla sua parte. Si fossilizzeranno su qualsiasi accenno al 2020 e non terranno conto di tutte le cose giuste che potrebbe dire sul fatto che Biden sta guidando il Paese nella direzione sbagliata. Se nel 2022 riusciamo a riconquistare la Camera e il Senato, gliene riconosceranno il merito. Se falliamo, credo che sarà la fine dell’era Trump. Il 6 gennaio sarà il suo necrologio. Se non vinciamo nel 2022, siamo fottuti».
L’opera incompiutaI presidenti vivono nell’opera incompiuta dei loro predecessori. Nessuno può saperlo meglio di Joseph R. Biden Jr.
Lui e i suoi collaboratori odiavano pronunciare il nome di Trump. (...) Ma l’esistenza di Trump permeava la Casa Bianca, e persino gli appartamenti presidenziali. Una notte Biden vagò fino a una stanza con un enorme schermo a tutta parete. Trump si rilassava con i videogiochi sui più importanti tornei di golf del mondo. «Che idiota» commentò una volta, esaminando i giocattoli dell’ex presidente.
Un altro presidente oppresso dalla pesante ombra del suo predecessore fu Gerald Ford nel 1974. Definì il Watergate un «incubo nazionale». Il Watergate scomparve, ma Nixon no. Nei suoi primi trenta giorni, Ford si sentì sempre più assediato mentre Nixon dominava le coperture mediatiche. «Avevo bisogno della mia presidenza» disse Ford in seguito. Il suo rimedio fu concedere la grazia a Nixon. Ford era convinto che fosse la scelta migliore nell’interesse nazionale e l’unico modo per disfarsi del passato di Nixon. La decisione fu accolta con sdegno generale e Ford perse la presidenza due anni dopo, una sconfitta dovuta in buona parte ai sospetti che avesse cercato di evitare la prigione al suo predecessore e mentore politico. Biden ha detto che non avrebbe mai graziato Trump, ma si è ritrovato di fronte allo stesso dilemma di Ford: come far andare avanti il Paese? Come conquistarsi la propria presidenza?
(...) Il 31 marzo 2016, quando Trump era a un passo dal vincere le primarie repubblicane, lo intervistammo (...). Riconoscemmo che era una forza politica straordinaria, un outsider, un anti-establishment (...). Ma notammo anche una certa oscurità. Sapeva essere meschino, cattivo. Annoiato dalla storia americana e con scarsa considerazione per le tradizioni di governo che avevano a lungo guidato i leader eletti dal popolo (...). «Il vero potere è – non voglio nemmeno usare la parola – paura» ci disse. «Riesco a fomentare la rabbia. Ci sono sempre riuscito. Non so se sia un punto di forza o di debolezza, ma è così».
Trump riuscirà di nuovo a imporsi? Ci sono limiti a ciò che lui e i suoi sostenitori potrebbero fare per riportarlo al potere?
Il pericolo rimane.
©2022 RCS MediaGroup S.p.A., Milano