il Giornale, 3 gennaio 2022
Intervista a Paolo Fazioli
Fazioli è il pianoforte di bandiera. Nasce da un’idea imprenditoriale di Paolo Fazioli, che 40 anni fa fondava la sua azienda a Sacile, in Friuli, dove il padre produceva arredi di design. Negli anni Ottanta del secolo scorso il colosso del settore era la Germania, e lanciare un pianoforte di fattura italiana era una sfida ambiziosa. Un po’ come se oggi volessimo proporre un vino asiatico sul mercato italo-francese. Per dare un’idea della difficoltà dell’impresa basta dire che i nostri produttori di pianoforti ricorrevano a terminologie tedesche per guadagnare in credibilità. «Se faccio pianoforti, metto il mio nome. Non voglio imbrogliare», sentenziò – invece – Fazioli. Che oggi è sinonimo di manufatti esclusivi. Se possiedi un Fazioli, vuol dire che sei un concertista così affermato da poterti permettere il lusso. Oppure sei talmente benestante da desiderarli come status symbol. Il costo va dagli 80 ai 160mila euro, e si sale vorticosamente per i prodotti ad personam, realizzati per facoltosi e fantasiosi committenti. Che arrivano a farsi costruire un pianoforte coperto d’oro 24 carati o di rosso Ferrari vestito.
Fazioli è davvero la Ferrari della tastiera, nelle sale da concerto e nei teatri che contano: dalla Cappella Paolina del Quirinale alla Fenice di Venezia, dalla Sala Tchajkovskijdi Mosca alla Juilliard School di New York. L’ultima edizione del Concorso Chopin di Varsavia, equivalente alle Olimpiadi dei pianisti, ha visto i tre finalisti scegliere un Fazioli per l’ultima prova, tra di loro anche il vincitore Bruce Liu.
Riavvolgiamo il nastro e torniamo al 1981: nasce la Fazioli. Come le è venuto in mente?
«Avevo conosciuto il tecnico che lavorava nell’atelier di Cesare Augusto Tallone (mitico costruttore e accordatore che nel 1966 creava il primo gran coda italiano, ndr). Gli spiegai che volevo progettare pianoforti. Nel frattempo si rese disponibile un altro professionista destinato ad essere una delle nostre colonne portanti, Guglielmo Giordano, fra i più importanti tecnologi del legno, che aveva viaggiato in tutto il mondo per esplorare i tipi di legni più disparati. Conosceva tutte le specie e scritto libri preziosi sui metodi di applicazione. Fu lui a indirizzarmi al legno della Val di Fiemme: fino a quel momento nessuno dei nostri competitor lo aveva preso in considerazione».
E dopo di voi?
«Tutti. Bechstein, per esempio, usa solo il legno di Fiemme».
Che cos’ha di speciale?
«È molto leggero ma con una struttura assai tenace, dunque interessante per gli strumenti musicali. Non per nulla lo aveva scelto Stradivari per i suoi violini».
E così, i concorrenti hanno seguito la vostra intuizione
«Fosse solo quello»
Cosa c’è d’altro?
«Parlo di idee, magari anche piccole. Ma non voglio fare polemiche. Penso solo che copiare sia sbagliato, ma sempre si è verificato e sempre accadrà. Pensiamo al caso del povero Meucci».
Questione di proprietà intellettuale da tutelare. Quanto ricorrete alla formula del brevetto?
«Ultimamente ne ho registrati due. Ma ci credo fino a un certo punto. Il brevetto dura venti anni, poi diventa proprietà comune. Nel frattempo, presentando un brevetto, tu racconti cosa fai e come lo fai, e se fai la tua descrizione in modo non opportuno crei i presupposti perché qualcuno trovi una nicchia dove collocarsi».
L’ha sperimentato sulla sua pelle?
«Purtroppo sì. Le racconto: avevamo brevettato una meccanica che poi è stata fatta quasi identica da un’altra casa produttrice. Cosa è successo? Che nella descrizione del brevetto abbiamo lasciato spazi aperti dove altri si sono inseriti oppure abbiamo narrato troppo minuziosamente cose che andavano raccontate per sommi capi».
Lei ha una laurea in ingegneria meccanica e un diploma di pianoforte. Ingegnere e artista: parrebbero due profili incompatibili o forse qui sta proprio la chiave del successo?
«Un tempo era difficile incontrare profili come il mio. Adesso vedo sempre più i pianisti con una laurea in ingegneria. Alla fine musica e scienza vanno a braccetto, il suono – per dire – è un fenomeno complesso studiato anzitutto dalla Fisica».
E di fatto, nella vostra prima squadra operava Pietro Righini. Sui suoi volumi di acustica si sono formate migliaia di musicisti.
«L’ho conosciuto che aveva già 75 anni e la sua presenza è stata determinante, era uno dei massimi esperti di Fisica applicata agli strumenti musicali».
Continuate a collaborare con fisici e scienziati?
«È cambiata la specializzazione. Ai tempi di Righini non c’erano software, computer, programmi complessi come quelli di oggi. Prima collaboravamo con il Politecnico di Milano, ora con una società di Firenze specializzata nella costruzione di modelli matematici: cose non concepibili ai tempi di Righini».
Da qui nascono modifiche a legni, metalli e forme?
«Spesso ci spingono a tentare strade diverse. Talvolta aberranti e destinate a restare teoriche ma in tutti i casi ci consentono di simulare comportamenti differenti del sistema acustico del pianoforte, e così capiamo se la strada che stiamo percorrendo è giusta o sbagliata. Tutto questo aiuta a perfezionare lo strumento. Che è poi il nostro obiettivo. Vogliamo migliorare nella convinzione che ogni punto di arrivo sia un punto di partenza».
Il 2 giugno, alla Festa della Repubblica, accanto al Presidente Sergio Mattarella c’era un pianoforte Fazioli. Che effetto le fanno situazioni di questo tipo?
«Mi riempiono di orgoglio. Sono stato nominato Cavaliere nel 2016 e quando andai a ritirare la pergamena, il Presidente mi disse Grazie per i suoi pianoforti. Siamo tutti molto orgogliosi. Credo che sia il Presidente stesso a chiedere che ci sia un nostro pianoforte in occasioni ufficiali. Del resto sarebbe stridente vedere uno Steinway & Sons al Quirinale o a Expo Dubai, sotto bandiere italiane».
S’aggiunga poi il fatto che il pianoforte l’abbiamo inventato noi
«Un’invenzione incredibile. Difficile concepire la storia della musica senza il pianoforte. Bartolomeo Cristofori (l’inventore, ndr) ebbe la grande intuizione di applicare al preesistente clavicembalo una meccanica diversa, che teneva conto della forza, modulazione e potenza del suono. Poi sappiamo come andò a finire, i tedeschi svilupparono l’idea, mentre il povero Cristofori morì in povertà assoluta senza aver avuto la soddisfazione di essere riconosciuto come inventore».
E lei, orgogliosamente, ha inciso il suo cognome sui manufatti fin dall’ur-Fazioli.
«Quando cominciai mi dissi: Dobbiamo dire la verità. E la verità è che il pianoforte lo facciamo in Italia ed è ideato da un team italiano. Questo è stato un grande handicap all’inizio, e la cosa sorprendente è che i più scettici erano gli italiani stessi, che preferivano il prodotto straniero. Alle fiere i più interessati ai nostri strumenti erano i tedeschi. Il nostro miglior rivenditore è stato Piano-Fischer di Stoccarda con cui collaboro dal 1982, il 24 agosto di ogni anno ci telefoniamo per festeggiare il compleanno dell’incontro».
Quanto vendete all’estero?
«Il nostro mercato è internazionale al 90%, ma fino a qualche anno fa eravamo al 95%. Il mercato interno cresce e mi fa molto piacere. Finalmente».
Fra i vostri primi e fedeli estimatori c’è Herbie Hancock, pare che giri il mondo con un Fazioli al seguito
«Conobbe i nostri pianoforti nel 1988 ad Umbria Jazz. Ne fu colpito al punto che venne da noi per scegliere il pianoforte da portarsi nella sua casa di Los Angeles, rimase giorni in fabbrica. Prima del Covid, ogni anno partecipavo alla NAMM, la più grande fiera di strumenti alle porte di LA, e lui veniva sempre a salutarmi. I jazzisti s’innamorano puntualmente dei nostri prodotti, dicono che l’ampia gamma di colori e sfumature li ispira. Del resto i jazzisti improvvisano, quindi hanno bisogno di strumenti che accendano la creatività».
Anche Andrea Bocelli ha un vostro pianoforte
«Un 308, uno dei più grandi».
Lei quale ha?
«Sto aspettando di regalarmi un 183, ma per il momento non c’è. Abbiamo così tanti ordini che quando arriva il momento in cui posso portarmelo a casa, mi spiegano che qualcuno lo sta aspettando da mesi e mesi. E così, finisco sempre per cederlo ai clienti».
Par di capire che la domanda superi l’offerta.
«La domanda cresce al punto che dobbiamo decidere se assecondarla producendo di più oppure allungare i tempi di consegna».
Quanti dipendenti avete?
«Siamo in cinquanta. E siamo noi stessi a formare gli artigiani, fuori non trovi queste professionalità, l’alternativa sarebbe attingerle dai concorrenti che però stanno in Germania e in Asia, e noi cerchiamo di avere maestranze italiane. La costruzione di un pianoforte è un’attività affine a quella del falegname il quale – in questa fase storica – usa sempre meno legno a favore di ferro e pannelli, per cui l’esperto che sappia lavorare il legno puro è difficile da trovare. Quindi partiamo da giovani con una buona manualità e li formiamo, un processo che chiede almeno un anno».
Immaginiamo che sia importante anche una certa deontologia professionale: i lavoratori di Sacile custodiscono segreti di bottega. Corretto?
«Chiediamo sempre estrema riservatezza, anche nero su bianco».
E ai visitatori esterni?
«Vietiamo di scattare foto, per esempio, benché siamo consapevoli che qualcosa può sfuggire. Circa vent’anni fa, un signore cinese, spacciandosi per direttore commerciale di un nostro rivenditore, fece il giro della fabbrica con uno dei primi telefonini con fotocamera. Fingeva di essere sempre al telefono ma in realtà scattava foto. Per essere sicuri dovremmo vietare l’ingresso».
Anzitutto ai concorrenti?
«Per la verità succede spesso che, in occasioni di fiere e congressi, i competitor vengano da noi. Quattro anni fa per dire, sono venuti a visitarci i team di Steinway & Sons, Bosendorfer, Bechstein. A mia volta sono stato invitato da loro. Non sono ancora andato ma chissà...».
In questi quarant’anni come è cambiato il modo di produrre il pianoforte?
«Siamo riusciti a ottenere cose prima impensabili, innanzitutto in termini di qualità, lunghezza e potenza del suono. Poi lo strumento ha guadagnato in solidità. I nostri pianoforti sono ormai carri armati, riescono a resistere agli attacchi dei pianisti dalle dita d’acciaio. Si narra che il grande Franz Liszt alla fine del concerto lasciasse il povero pianoforte scassato, e lui – da virtuoso incredibile, se ne vantava. Prima questo era il parametro fondamentale della qualità dello strumento: la resilienza».
Anche nel vostro settore si fa fatica a procurarsi i materiali?
«Al momento non è un grosso problema, ma inizia a profilarsi all’orizzonte. Di sicuro i prezzi stanno aumentando molto, così come diminuisce la capacità di consegna. Anche se noi, tutto sommato, produciamo una quantità limitata, intorno ai 150 pianoforti l’anno».
Avete il classico pianoforte laccato nero, quindi bianco e color legno. Ma non mancano le richieste più bizzarre, come il pianoforte rosso Ferrari. Le capita di fare un balzo sulla sedia quando le chiedono cose del genere?
«Mi sono abituato. Ormai mi aspetto di tutto. L’ultimo molto particolare che abbiamo fatto si chiama Mirror, ci hanno chiesto di conficcare sulla superficie del pianoforte aste che terminano con 450 specchietti. Mah».