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 2022  gennaio 03 Lunedì calendario

Dialogo tra Francesco Piccolo e Antonio Pascale

Sono amici, entrambi nati e cresciuti a Caserta e poi approdati a Roma. Antonio Pascale e Francesco Piccolo hanno frequentato da ragazzi lo stesso liceo e condiviso le serate, i bar, lo struscio e infine la scelta di lasciare la provincia. Due anni di differenza: Pascale è del 1966, Piccolo del 1964. Li accomuna la libertà di non preoccuparsi troppo del politicamente corretto: per scrivere – sono d’accordo – bisogna essere un po’ spudorati. L’occasione di questo dialogo è l’uscita del nuovo libro di Pascale, La foglia di fico (Einaudi), ambientato proprio a Caserta.
Una raccolta di storie che raccontano la vita così com’è, piena di sbagli e difetti, narrando la giovinezza dell’autore-personaggio: la passione per le piante e il rapporto con padre, le ragazze, gli amici, il sesso, le feste, l’amore. Appuntamento nello studio di Piccolo, a Roma, quartiere Ostiense. Fuori dalle finestre il gasometro, contrappunto metropolitano perfetto a un libro pieno di alberi.
Francesco Piccolo: Ti dico subito che il personaggio che mi colpisce di più del libro è quello di tuo padre. Una figura gigantesca. In genere tentiamo di distaccarci dai padri, di non occuparci delle loro stesse cose. Invece nel tuo romanzo l’idea di formazione, la trasmissione di sapere, passa attraverso lui.
Antonio Pascale: C’era nella sua storia qualcosa che ha a che fare con la povertà e il riscatto dalla povertà che volevo recuperare. Mio padre veniva da una famiglia contadina, aveva sempre gli stivali in macchina, pronto a indossarli per calpestare la terra. Non sopportava che non si conoscessero i nomi degli alberi, se non li sapevi si arrabbiava. Io li ho imparati e nel tempo mi sono accorto che dietro quei nomi c’era una cultura. Così dopo il liceo ho scelto di laurearmi in agraria.
FP: Ma tu quella cultura la rendi attiva attraverso le persone, le loro storie d’amore, mentre in Italia c’è sempre stata una specie di patina, un’ideologia del mondo contadino. Penso a Pasolini che lo mitizzava, facendone il luogo del bene assoluto, o dall’altra parte a Carlo Levi che lo rendeva tragico, perché quel mondo lo faceva soffrire. Il tuo modo di restituirlo invece è diverso, è vivo, coinvolgente. Non ha a che vedere con l’idealizzazione pasoliniana del passato né con la sofferenza di Levi per la mancanza di progresso.
AP: Questo è un libro sul passaggio da Pinocchio a MasterChef, dal mondo della fame a quello dell’abbondanza.
I simboli delle trasformazioni umane qui sono però alberi.
FP: Il primo racconto, Cactus , è la storia di una donna spinosa. L’idea di usare le piante per descrivere il carattere delle persone mostra come Antonio sappia narrare la vita attraverso quello che conosce meglio.
AP: Le piante rimandano a simboli ancestrali che descrivono la condizione umana. A volte sono contraddittori e ambivalenti. Come nel caso del ciliegio che rappresenta il desiderio ma è anche il simbolo del possesso. I rami del ciliegio sono belli a tal punto che li stacchiamo per averli, a costo di distruggere la pianta. Forse anche per questo i giapponesi legano i ciliegi al concetto di impermanenza per ricordarci che quella meravigliosa fioritura svanirà e che è inutile cercare di possederla. Il cactus invece riesce a sopravvivere in qualsiasi condizione. Anche le spine gli servono, lo aiutano a raccogliere l’acqua dalla nebbia. Attraverso il simbolo di questa pianta ho voluto raccontare una donna diversa, una ragazza, Sara, che aveva altre ambizioni e per questo nel nostro circuito provinciale appariva spinosa.
FP: Noi allora eravamo ancora legati al mondo protettivo casertano. La provincia è accudente ma può essere molto castrante. Sara giustamente aveva voglia di scappare, cercava altre strade.
È un mondo maschilista?
FP: È proprio questo il punto. Per cambiare quella cultura maschilista bisogna assumersi il compito di raccontarla. Nei miei libri ho scelto di farlo con molta ostinazione. A volte bisogna sapersi mettere dalla parte dell’imputato invece che da quella dell’accusatore.
AP: La tendenza di molti intellettuali invece è a essere normativi. Come te, anche io preferisco essere descrittivo. Sono le relazioni a contare e la nostra implicazione nel sistema che osserviamo, la nostra complicità. La cancel culture è la negazione di questa complessità?
AP: Nega l’esistenza del conflitto, che è poi l’unica cosa per cui vale la pena vivere.
FP: Ed è anche una delle poche ragioni per cui vale la pena scrivere. La cancel culture nega la possibilità di raccontare ciò che è sbagliato. Che è proprio quello che dovrebbe interessare la letteratura. Questo non significa che non bisogna combattere per dei valori ma uno scrittore dovrebbe tenersi lontano da qualsiasi norma impositiva che riduca la complessità.
AP: È il percorso che separa l’essere amato dall’amare, ciò che è familiare dalla meraviglia di qualcosa che non conosciamo.
FP: La foglia di fico dimostra che si passa attraverso gli errori, la fragilità, le debolezze, le meschinità e le prepotenze. Ci sono gli incontri, gli sbagli. Il padre, le donne, gli amici, le piante, aiutano il protagonista a conoscere il mondo. Il racconto delle cose che facciamo, anche delle stronzate, assomiglia alla vita.
AP: Queste storie in effetti possono apparire delle favole ma sono brutali, piene di conflitti.
C’è anche un’idea di felicità però. Di nuovo legata a una pianta: «La strada per la felicità passa per una pineta», si legge nel libro.
AP: In questo senso le piante sono delle bussole sentimentali ed emotive. Ma niente è ordinato, perché credo che i veri padroni della vita siano il tempo e il caos. Il tempo lo subiamo e il caos non riusciamo a controllarlo. Ho cercato di far entrare questi due elementi nella narrazione, consapevole che il tempo cambia i ricordi e che la mia stessa memoria è incerta. A volte ho la sensazione di procedere per amnesie, allora cerco di assorbire le voci degli altri e di mescolarle alla mia costruendo una narrazione polifonica. Forse l’unico elemento veramente mio è il pessimismo radicale. Siamo al mondo per puro caso, è tutto molto insensato.
FP: Sinceramente mi pare però che il tuo pessimismo, l’idea che hai della vacuità dell’esistenza, sia a suo modo una ricerca di senso. Anzi proprio questa ricerca disperata di senso mi sembra la cosa più emozionante del tuo libro.
In questa esplorazione l’amore che ruolo ha?
AP: Narro di amori imperfetti, falliti, pieni di contrasti. Confesso di avere un sospetto verso l’amore romantico, quello delle anime gemelle perfettamente fuse.
FP: L’amore perfetto è destinato a finire al primo errore.
AP: Inoltre l’amore dipende da tante cose, è una variabile dipendente dalle esperienze vissute, dai traumi subiti. La vita è un guazzabuglio di emozioni, non tutte splendenti. A noi scrittori spetta di trasformare questo guazzabuglio in una sostanza meno opaca. In questo caso la scrittura può essere vista come un percorso terapeutico.
FP: Credo che la scrittura sia sempre un percorso terapeutico. Fallimentare. Alla fine non si diventa persone migliori ma non importa, conta il percorso.
Per scrivere autofiction si deve essere un po’ spudorati, dimenticare la timidezza?
FP: Credo che la scrittura consista proprio nell’andare a toccare i nervi scoperti, col rischio di mettersi nei guai. Forse bisognerebbe rischiare di più di scrivere dei libri brutti, senza pensare alle conseguenze.
AP: Ho buttato due libri prima di questo perché non mi convincevano. Nella scrittura bisogna saper tirare fuori la propria intimità senza protezione.
FP: In passato, quando c’era ancora mia madre, a volte mi capitava di chiedermi che cosa avrebbe pensato leggendomi. Non lo faccio più, la capacità è nell’evitare quel pensiero. Mai pensare a tua madre mentre scrivi (sorride, ndr).