la Repubblica, 3 gennaio 2022
L’ultima stoccata di D’Alema
Ecco, sì: ci mancava D’Alema. Non fino al punto di chiedersi che fine avesse fatto, ché i grandi interpreti della commediona politica italiana restano sempre là, ma era un po’ che si teneva distante, e la classe si vede dal fatto che la stoccata, lama intinta nel veleno, è arrivata con gli auguri per l’anno nuovo annunciando il ritorno nella casa comune.
Diceva: «Mi occupo del rinnovamento del pensiero della sinistra nel Terzo millennio. Non sono cose piccole». Oppure, sempre gettando incenso nel braciere della dissimulazione: «Guardi, io presiedo la Fondazione Italiani Europei, faccio il professore e collaboro con una delle più grandi aziende di consulenza del mondo». Compiuti i 70 anni c’era chi aveva notato come il tratto umano, pur restando spigoloso, si fosse come addolcito, insomma la distanza dalle beghe italiane sembrava reale. Sembrava, appunto. Per gli esperti dalemologi, categoria che nel giornalismo politico abbraccia un paio di generazioni, l’accenno alla vastità del compito teorico assegnatosi e soprattutto quel riferimento planetario all’impegno con la Ernst Young erano invece il segno, o la conferma, che in Italia tutto sempre cambia per restare uguale a se stesso, di solito, per quanto riguarda il carattere di D’Alema, con un sovrappiù di espressività in marcia inesorabile verso il grottesco.
Ed eccoci qua, col povero Letta il primo giorno del 2022 costretto ad aggiustare, a placare, a chiarire. A parte il richiamo un po’ leninista, la faccenda del renzismo come malattia (infantile?) lascia un po’ il tempo che trova. A giudicare dal presente stato del sistema politico, non c’è leadership, a destra come a sinistra, che non si possa misurare con il metro della patologia, tra immunodeficienza e psichiatria.
D’Alema, che ha fatto il bello e il cattivo tempo in Pds, Ds e Pd, non fa ovviamente eccezione. Nello specifico vale la pena di menzionare una sorta di legge generale formulata in forma di aforisma da un corsivo di Jena: «Peggio di D’Alema ci sono i dalemiani; peggio dei dalemiani ci sono gli ex dalemiani; peggio degli ex dalemiani c’è solo Orfini».
A prescindere da quest’ultimo, il punto impegnativo, semmai, è individuare il cristallo di rocca, il nocciolo duro, il nucleo incandescente che rende D’Alema, appunto, D’Alema. Per arrivarci occorre riconoscergli diverse virtù: è intelligente, è colto, ha carisma, esperienza di governo e conosce il mondo; inoltre è coraggioso, trasmette sicurezza ai suoi devoti, ha un modello alto in testa (Palmiro Togliatti) e, una volta conosciuto di persona, risulta anche spiritoso e perfino simpatico. Finché c’erano gli ideali e le culture politiche tutto questo l’aiutava moltissimo.
Tramontato quel mondo, ha ottenuto il potere, ma gli si è come rotta la cornice e gli è saltato un contenimento. Nella politica mediatizzata, un modo carino per intendere una scena pubblica che dal teatrino dei pupi si è estesa alle arene del wrestling, quel processo si è rivelato una prigione e le virtù di cui sopra sono diventate la sua dannazione.
Qui non si fa psicanalisi: ognuno è quello che è e faccia un po’ quello che gli pare. Però da anni sembra davvero che D’Alema concepisca la politica e se stesso in una costante trance agonistica. Vuole soprattutto primeggiare. Ne hanno via via fatto le spese i socialisti craxiani, Occhetto, Prodi, un po’ Fassino, Veltroni; nelle pause la smania di sovrastare e dominare si è manifestata con la barca, poi con la gastronomia, da un po’ anche con le smanie country e col vino. Numero uno, sempre. Ma siccome non è possibile perché siamo tutti fragili e pieni di magagne, ecco che in lui le normali sconfitte e i naturali avvicendamenti della vita pubblica si risolvono in presunzione, disprezzo, arroganza, forse anche odio, di sicuro ostentando una suscettibilità che nel permanente carnevale spinge una quantità di persone a provocarlo, a dileggiarlo, a stuzzicarlo e a godersi la reazione, che arriva puntuale.
Si può immaginare come abbia vissuto la figura di Renzi, di cui ha detto: «Finché mi sarà dato di esistere, non potrà stare tranquillo».
Sennonché qui da noi l’attitudine melodrammatica va a braccetto con la minaccia di querelare chi l’aveva accusato di negligenza rispetto alle deiezioni del gigantesco cane Aiace, 70 kg; e quando degli inviati di chissà quale trasmissione e chissà per quale stupido pretesto gli si sono parati innanzi con un vassoio di tortellini, lui ha messo su la faccia delle grandi occasioni e sbàm, con una manata, tutti i tortellini giù per terra, davanti alle telecamere.
Tutto ciò, nell’immaginario, rischia non solo di oscurare, ma di deformare in senso drammaticamente caricaturale una carriera che ormai sfiora il mezzo secolo. Senza che mai si possa dire: non è più lui. E infatti ci mancava, D’Alema.