il Giornale, 2 gennaio 2022
A 10 anni dalla morte di Donna Summer
Dopotutto non è un caso se in House of Gucci i due brani che fanno da colonna sonora dell’incontro tra Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci siano proprio di Donna Summer. Dopotutto lei è l’immagine dell’epoca dei grandi stilisti e degli stili nuovi, degli anni della contestazione che si trasformano in quelli della ricchezza. On the radio e Bad Girls. Uno pacato. L’altro sensuale. Sono i due volti di Donna Summer, che per semplicità di cronaca è considerata la «regina della dance», ma che in realtà si è rivelata una artista chiave della musica popolare del Novecento. Bellissima, ma non solo. Prima modella di moda poi modello di una moda che non è ancora passata di moda. Se non ci fosse stata Donna Summer probabilmente Madonna avrebbe fatto molta più fatica e figurarsi Rihanna oppure Beyoncé. È stata l’artista che ha aperto le porte della musica a tutti, a prescindere dall’orientamento sessuale, dalla provenienza geografica, dall’identità politica. Ha abbattuto le barriere ben prima che lo facesse chi oggi si vanta di farlo. E ne ha affrontato le difficoltà molto più di chi oggi se ne lamenta.
Non a caso proprio in queste settimane, a dieci anni dalla morte, la Universal ha annunciato che arriverà Donna, il documentario diretto dalla figlia Brooklyn Sudano con il premio Oscar Roger Ross Williams. Una sorta di omaggio a chi ha aperto la strada e lo ha fatto senza scandali, senza provocazioni, ma soltanto con la forza delle canzoni. Perciò, scommettiamoci, il docufilm sarà un successo perché la storia di LaDonna Adrian Gaines, nata a Boston nella notte di San Silvestro del 1948, è la storia perfetta per mettere al posto giusto il puzzle di un’epoca musicale determinante molto più dei dischi d’oro e dei primi posti conquistati.
«Il lavoro con lei è stato l’inizio della musica elettronica» ha detto Giorgio Moroder, la vera mente dei successi di questa regina così sfortunata che un cancro ai polmoni si è portato via nel 2012 a soli 63 anni e così sottovalutata da entrare nella Rock’n’Roll Hall Of Fame soltanto dopo la morte e dopo tante finte nomination. Uno scandalo. Ma forse questo era il destino di questa magnifica donna, terza di sette figli, che ha iniziato a cantare a otto anni nel coro della chiesa seguendo la tradizione gospel di tutte le comunità nere. Popolare, ma non riconosciuta. Bella, ma anche brava. Brava e coraggiosa. Insomma, troppo eclettica per essere incasellata in una categoria come allora piaceva fare. Mentre negli States impazzava la Summer of Love, in Germania nasceva Donna Summer. Nel 1968, al massimo della propria grinta, LaDonna Gaines si trasferì là per recitare nella versione tedesca del musical Hair e sposare l’austriaco Helmut Sommer che la fece diventare mamma di Mimì e le diede l’intuizione del nome d’arte: Summer. Dopo la Summer of Love, ecco la Summer of Dance. La nascita di un nuovo stile che poi ne ha fatto germogliare altri, dall’elettronica alla techno. Mentre all’hard rock di Led Zeppelin e Deep Purple si affiancava il prog di Genesis o Jethro Tull poco prima che le folate del punk azzerassero la memoria blues, dall’altra parte del mondo il ciclone dance iniziava a soffiare proprio con le canzoni di questa ragazza dai riccioli neri.
Paradossalmente tutto partì da Monaco di Baviera grazie ai gemiti di Love to love you baby del 1975, una sorta di Je t’aime... moi non plus con Donna Summer che gemeva come Jane Birkin, anzi forse di più. Scandalo! I critici ingessati la bandiscono dalle radio, ma chissenefrega: diventa un gigantesco successo in discoteca. Era nata una star. Che non si è ancora spenta, perché la dance gira ancora intorno e tante neo dive, forse quasi tutte, sono sue replicanti oppure versioni aggiornate. E il motore di tutto è stata lei, che non era solo quella che «works hard for the money», come recita il titolo di un suo brano. Era il completamento vocale della genialità di Giorgio Moroder, l’uomo che ha dato un suono a un’epoca. Per capirci, nel 1977 Brian Eno e David Bowie erano a Berlino per registrare Heroes, disco per tanti versi decisivo. Un giorno Brian Eno entrò nello studio di registrazione urlando a Bowie: «Ho sentito il suono del futuro». Era I feel love di Donna Summer firmata Summer-Moroder-Bellotte. Come dargli torto? In Italia rimase per diciotto settimane tra i brani più venduti e tuttora è considerato tra i brani spartiacque della musica leggera. Una sorta di suite tra disco music ed elettronica in cui si sono specchiati in tantissimi, dai Kraftwerk ai Bee Gees. Ma il vero deus ex machina era Giorgio Moroder, un genio solitario della Val Gardena, classe 1940, che non ha mai cercato la luce dei riflettori, ma quella della storia. E basta passeggiare un po’ sul tapis roulant che va da Donna Summer alle colonne sonore di Scarface, Flashdance e Top Gun per capire quanto quei suoni siano tuttora l’identikit musicale di un’intera epoca. Non a caso Donna Summer perse il tocco magico quando (si dice per ordine dell’etichetta Geffen) lasciò Moroder per entrare alla corte di Quincy Jones. Un altro geniaccio, per carità, che però la fece diventare come tutte le altre. Brava ma non unica.
Una lenta «normalizzazione. Con grandi successi, sia chiaro (Love is in control su tutti), ma di minor dirompente riconoscibilità. Nelle pieghe del successo, mamma LaDonna ebbe due figlie (Brooklyn e Amanda, avute con Bruce Sudano, cantautore decisivo che ha appena pubblicato un disco). E qualche bel duetto, ad esempio con Liza Minnelli e con Andrea Bocelli. Inciampò anche in quella che fu probabilmente la prima «shit storm» della storia: nel 1983 fu accusata di aver disprezzato la comunità gay. Apriti cielo. Anche se si proclamò innocente, dovette scusarsi e supportare sempre la Gay Men’s Health Crisis. Ma da allora il mondo gay l’ha sempre guardata con sospetto.
Quando morì a Naples in Florida nel 2012 («Vivevo di fianco alle Torri Gemelle e le polveri dell’attentato mi hanno causato il tumore ai polmoni», diceva), oltre ai parenti al suo funerale c’erano solo Giorgio Moroder, David Foster e Natalie Grant. Ma tanto la sua lezione sarebbe rimasta accesa e viva, se non altro per il numero di imitatori. E adesso è pronta a farsi amare da chi non conosce ancora questa americana che emigrò in Germania per conquistare il mondo.