Il Messaggero, 2 gennaio 2022
Biografia di Molière
Tra pochi giorni la Francia celebrerà un anniversario importante: quattrocento fa, il 15 gennaio 1622, nasceva a Parigi Jean Baptiste Poquelin, meglio noto come Molière. In un momento in cui, per le note ragioni, i palcoscenici languono e le platee si svuotano, ci piace ricordarlo come benaugurante auspicio di una rapida ripresa di tutte le attività artistiche in genere e teatrali in specie.
Per uno di quei miracoli dello spirito che vedono esplodere improvvisamente un periodo di straordinaria fertilità artistica e intellettuale, la Francia raggiungeva allora le vette nelle lettere e nel pensiero. Nell’arco di mezzo secolo nacquero i Pensées di Pascal, le tragedie di Racine e di Corneille, le Maximes di La Rochefoucauld, Les Caractères di La Bruyère, il Dictionnaire di Pierre Bayle e le satire di Boileau. Simili prodigi si erano visti solo nelle età di Pericle, di Augusto e di Elisabetta. Ma si erano estinte presto: quella greca per la guerra del Peloponneso, quella romana per la decadenza dell’Impero, e quella inglese per l’avvento del puritanesimo. Lo stesso sarebbe avvenuto anni dopo per la Germania di Hegel, di Goethe e di Schiller, e per la Russia di Tolstoj, di Dostoesvkij e di Cechov, che, a distanza più o meno lunga, sarebbero cadute nell’inferno della dittatura. Come delle nazioni così fertili di geni creativi e sensibili possano sprofondare sotto gli artigli di Hitler o di Stalin è un mistero, o una beffa dello Zeitgeist.
LA MARCIA TRIONFALE
Per la Francia, al contrario, l’età aurea fu assai più duratura. Il Grand Siècle fu infatti l’inizio di una galoppata inarrestabile e gloriosa, che attraverso Voltaire e gli enciclopedisti, la reazione di Chateaubriand e di Lamartine, e il corposo realismo di Balzac, portò alle raffinatezze di Stendhal e di Flaubert, fino al corrosivo scetticismo di Anatole France. In questa lunga marcia trionfale, ancora oggi buona parte degli storici della letteratura francese definiscono il Seicento come insuperato. E di questo periodo, Molière fu, nel suo ambito, il sovrano assoluto.
Era figlio del tappezziere del Re, l’incaricato della manutenzione del letto del sovrano. Questo consentì al ragazzo di frequentare la nobiltà di Corte, e di apprendere pregi e difetti di chi vi apparteneva e di chi aspirava a farne parte. Una delle prime lezioni che imparò fu la sostanziale irreligiosità di quel mondo che copriva l’immoralità con una irritante ipocrisia. Molière, che aveva già perso la fede leggendo Epicuro e traducendo Lucrezio, ebbe da quella pratica una conferma alla teoria. Non ripudiò mai formalmente la religione ufficiale, ma visse e pensò da pagano.
LE CONQUISTE
Le prime commedie rappresentano quella sensualità grezza e ridanciana delle sue ambigue e numerose frequentazioni femminili: alcuni titoli, come Le Cocu imaginaire, sono espliciti. Altri, meno significativi, trattano comunque gli stessi argomenti: inutili precauzioni di mariti gelosi e corna coniugali. Il pubblico si divertiva, i preti un po’ meno. A quarant’anni, quasi per confermare la fama di spregiudicato, Molière sposò la ventenne Armande Bejart, figlia di una sua vecchia amante. I maligni lo accusarono di incesto. Non era vero, ma l’autore confermò i sospetti di immoralità attraverso il suo capolavoro, Le Festin de pierre, che tutto il mondo conosce attraverso il Don Giovanni di Mozart. È la storia del nobile libertino che colleziona conquiste femminili di cui Sganarelle-Leporello tiene un accurato catalogo.
LE PERVERSIONI
Come nelle opere di De Sade, peraltro illeggibili per la loro ripetitiva prolissità, qui il tema dominante non è il sesso ma è l’ateismo che giustifica ogni più brutale perversione, perché, come dirà più tardi Karamazov, se Dio non esiste tutto è consentito. In Don Giovanni la prevaricazione sessuale è l’aspetto truce della dissacrazione della persona, e il protagonista è così miscredente da concedere l’elemosina a un poverello a patto che bestemmi. Il mendicante rifiuta, e Don Giovanni gli dà comunque la moneta, per amore dell’umanità. Il fatto che un simile demonio si fosse dimostrato generoso irritò il pubblico e scandalizzò la Chiesa. I passi più scabrosi furono tagliati, e riapparvero solo in edizioni successive. Ma il danno era fatto, e i grandi predicatori, a cominciare da Bossuet, fulminarono il sospetto eretico con insulti feroci.
I BERSAGLI
Evitando prudentemente un terreno così scivoloso, il corrosivo commediografo ritornò ad attaccare con crescente vis comica e polemica i vizi privati e le pubbliche attività. Cominciò con la professione medica, e nell’Amour médecin strapazzò i cerusici che logoravano i pazienti con clisteri, emetici e salassi; nel Misanthrope il protagonista si batte inutilmente contro l’ipocrisia e trova rimedio in un’indulgente solitudine ascetica; nell’Avare il meschino Arpagone, così taccagno che non dà nemmeno il buongiorno, ma si limita a prestarlo, è la caricatura grottesca di un Paperone senza nipotini. Nel Bourgeois Géntilomme Molière bistrattò i borghesi che vestivano e parlavano come gli aristocratici di razza e di spada. Davanti a tanto classismo vien da domandarsi se il libertario trasgressivo non fosse in realtà un burbero reazionario irritato.
LA DECADENZA
Il cattivo carattere, la tubercolosi, la vita sregolata, e l’effervescente inquietudine esasperarono le tensioni di un animo che scriveva da comico ma pensava da tragico. A soli cinquant’anni Molière era fisicamente e spiritualmente svuotato di vitalità. Fu forse per esorcizzare le sue malattie reali che nel 1673 scrisse e impersonò Le Malade Imaginaire, che ogni ipocondriaco dovrebbe leggere per diffidare dei guaritori ciarlatani. Purtroppo nel suo caso non si trattava di lugubri immaginazioni patofobiche. Durante una recita l’attore ebbe un’emottisi, la mascherò con una finta risata, ma dovette interrompere la rappresentazione. Fu trasportato a casa e morì soffocato nel sangue.
IL RIGORE
Oggi è ricordato, e a ragione, come il padre della Commedia francese e più in generale, ancor più di Shakespeare, di quella moderna. Il paradosso di Molière è che si considerò sempre un drammaturgo costretto a far ridere, anche se il sorriso è così amaro da convertirsi in pessimismo sarcastico e spietato. Il solo evento che gli rese giustizia, confermando questa sua funerea aspirazione, fu proprio il suo drammatico epilogo sulla scena. Ma Molière non fu povero attore tronfio sul palco, e la sua non fu una storia narrata da un idiota, piena di furore e di odio e senza significato, come la definì il suo grande predecessore inglese. Fu il tentativo di denunciare il bigottismo, la pedanteria e la falsità dei suoi tempi con un rigore implacabile, appena mitigato, qua e là, da una benevola comprensione per gli irrimediabili difetti della nostra imperfetta natura.