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 2022  gennaio 02 Domenica calendario

Biografia di Gennaro Nunziante raccontata da lui stesso

La comicità è una faccenda serissima. E Gennaro Nunziante ha l’aspetto dell’impiegato del catasto, l’aplomb di un perfetto farmacista anche quando viene preso d’assalto per un tampone e l’atteggiamento del compagno di classe irreprensibile secondo i professori, in realtà istigatore di ogni nefandezza deontologicamente accettabile. In due frasi è in grado di mescolare filosofia, politica, cazzeggio, religione, Bari vecchia, “ricchione” e sempre con lo stesso – apparente – tono. Decifrare e cogliere le lievi sfumature della voce è compito dell’interlocutore.
È il regista dei record, dei milioni, quelli veri, raggiunti insieme a Checco Zalone. Poi la rottura. E orizzonti differenti (“Ogni tanto ci mandiamo un messaggio. Nulla più”). Da ieri è di nuovo in sala con Pio e Amedeo protagonisti di Belli ciao (prodotto da Fremantle e Vision Distribution), un film divertente, costruito secondo le sue logiche a dispetto del percorso più sboccato del duo comico: niente parolacce, niente nudi, niente eccessi.
Eppure funziona.
Genesi.
L’idea si materializza la sera del 7 marzo 2020, quando viene preannunciato il lockdown e autostrade e stazioni vengono affollate da persone che vogliono scappare al Sud. Lì ho pensato: cavolo, il Nord opulento non è più tanto agognato. Nonni e genitori anziani si riprendevano in casa questi figli, nonostante il rischio.
Lei vive a Bari. 
Non mi sono mai mosso.
Tentazione?
Sto bene ovunque, amo Roma, però devo stare vicino al mare e a due passi dalla campagna.
Vivere a Bari le ha minato la carriera?
Quando sono arrivato a Roma, prima ancora di girare Cado dalle nubi, ho capito che quell’ambiente non era per me, non stavo a mio agio.
Perché?
Ho il mio linguaggio cinematografico e non mi interessa il cinema in assoluto.
Tradotto?
Il cinema non lo vivo come un’arte, ma un lavoro artigianale: mio nonno era artigiano, mio padre era artigiano e io sono lo stesso.
Il cinema è pure relazioni.
Questo è un mestiere in cui è importante approfondire, studiare, leggere. Poi ho tre figli, mica ho tutto questo tempo.
Si è mai sentito escluso dai circoli “colti”?
Sono onorato di non farne parte, non ne sento l’esigenza né la curiosità.
C’è mai stato in mezzo?
Una sera a Roma sono finito in una festa piena di cineasti importanti. Per tutto il tempo ho solo sentito parlare d’incassi; (ride) prima di arrivare alla festa mi aspettavo di conoscere persone alte, ragionamenti alti, talmente alti da toccare vette filosofiche e invece vinceva il botteghino.
Sul botteghino non è messo male.
Eh, ma vieni guardato male anche in questo caso.
Nessuno dell’ambiente romano l’ha colpita?
Liliana Cavani, altro livello, grande persona: aveva visto Cado dalle nubi e mi ha fermato con parole bellissime e soprattutto con semplicità e dolcezza. Senza acredine.
Intorno a lei ha avvertito acredine?
Quando un cineasta ti parla vuole sempre essere accreditato oltre il possibile.
Non basta mai.
Soprattutto i comici anziani: invecchiano inaciditi, vorrebbero diventare padri della patria o cavalieri del lavoro. Vogliono essere riconosciuti.
Lei è riconosciuto?
Sì, dalla mia famiglia quando entro in casa; (ride) per il resto no, preferisco restino i film.
Roma è grande bellezza?
È bellissima tutte le volte che decade, bruttissima tutte le volte che eccelle: durante il periodo di Giubilo sindaco, nelle cantine c’era una meravigliosa vitalità di controinformazione; ho amato meno la Roma più ecumenica, quando sono arrivati i “nostri” (intende la sinistra, ndr) e bisognava solo pregare e mai bestemmiare.
Qual è il suo film preferito, ultimo escluso?
Da un punto di vista tecnico è Quo vado: lì il linguaggio è ancor più affinato, però sono legato ai film che ho realizzato con Alessandro D’Alatri. Siamo molto amici.
Con lui ha recitato in Casomai.
(Sorride) Non pensavo di partecipare come attore; un giorno arrivo a Roma, con Alessandro andiamo a prendere un gelato e mi confida un problema: “Non riesco a trovare il prete del film. Ho provato tanti attori, nessuno mi convince”. Ascoltavo e mangiavo. “Stai tranquillo, ce la farai”. A un certo punto si blocca. “Tu”. “Tu chi?”. “Farai il prete”. “Sei impazzito?”.
Com’è da attore?
Nella vita non ho mai voluto manierarmi, mai desiderato prendere in prestito idee di recitazione altrui, e lo stesso nella scrittura o nella costruzione della narrazione. Ho puntato all’unicità.
Quindi?
Anche nel ruolo di prete sono andato avanti secondo una mia idea, senza impostare la voce; (pausa) non ne posso più di questo diaframma, tutti gli attori lavorano solo su quello.
Gassman docet.
Voglio istituire la giornata dell’espianto del diaframma dall’attore.
Perché non ha proseguito con la recitazione?
Dopo Casomai mi hanno chiamato per un ruolo in Don Matteo.
Ottimo.
Declinato. Alla signora del cast ho risposto: “Ho interpretato un parroco, non posso scendere a sacerdote. O cardinale o niente”; (ride) non è finita: tempo dopo mi contatta don Dario Viganò, perché Casomai era diventato catechesi di base per i matrimoni.
E…
Dovevo andare nelle parrocchie per presentarlo. Io incerto. Alessandro insiste. E al secondo incontro capisco il fraintendimento: le coppie mi trattavano veramente da prete, mi ponevano domande specifiche. A quel punto ho posto la questione a don Viganò: “Non sono prete! Sono sposato con figli”. Non mi hanno più coinvolto.
Se l’appellano “Ciao ricchione”, si offende?
(Silenzio) Dipende.
Cassano l’ha apostrofata in questo modo.
(Pausa. Ride) È vero. Una mattina squilla il cellulare di Checco (Zalone), rispondo: “Ue’ ricchio’!”. “Non sono Checco, sono Gennaro”. “E si ricchione pure tu!”; poi tutto questo l’ho enfatizzato nell’ultima scena di Cado dalle nubi, quando Checco e lo zio si abbracciano, passano due sul motorino e scatta il “ue ricchio’!”. In realtà quell’epiteto è mio, aggiunto nel doppiaggio.
Sembra uno posato.
Non è così, mia moglie sostiene di avermi sposato perché sono scemo. Ed è un complimento, non voglio prendermi sul serio e amo cercare i miei punti deboli, le ipocrisie.
Quali sono?
Quello più grande è pure la mia forza: sono molto distratto, vivo sempre in mondi paralleli.
È pericoloso alla guida.
Non ho la patente (pausa). Meglio evitare.
In Belli ciao Pio e Amedeo sono un tono sotto rispetto al loro stile abituale.
Quando mi hanno proposto il film sono stato chiaro sul tipo di linguaggio: di questi tempi offendere è alla portata di ognuno, vomitare sugli altri è il proprio pasto; tutto si riduce al sarcasmo, e il sarcasmo è la lingua del potere. (Pausa) Sarcasmo significa lacerare le carni: non sopporterei l’idea di qualcuno imbarazzato dentro una sala cinematografica.
Nei suoi film non c’è mai un nudo.
In una commedia non è sensato.
Quale stile di commedia apprezza?
Quella americana, in cui si cerca di stare vicini a ogni uomo. A sostenerlo nella giusta evoluzione.
Quella italiana?
Troppo amara, cinica, con molti strascichi sull’evoluzione del Paese.
Ha sdoganato certe barbarie?
Soprattutto ha annullato alcuni concetti portanti, come il valore del lavoro e della donna; da lì è stato un attimo arrivare alle “vacanze”.
È più censorio di Andreotti.
Quei film rappresentano una cartolina dell’Italia che gli americani amavano ricevere: loro raccontavano i sogni e noi i nostri incubi. Noi brutti, sporchi, cattivi, corrotti, incapaci.
Fabio Rovazzi la definisce un uomo colto.
(Sorride) Qualche libro l’abbiamo letto, ma la vera cultura arriva relazionandoci con le persone; (pausa) sono cresciuto in un quartiere popolare.
Nella Bari di qualche decennio fa non erano luoghi semplici.
Arrivo dal “Libertà”, dove venivamo trattati da ghetto, mentre era un luogo meraviglioso, vissuto dalla classe operaia, io figlio di un ferroviere.
Non solo classe operaia.
C’era di tutto, pure la criminalità.
Cosa amava in particolare?
La promiscuità. Parlavi con persone completamente diverse: dalla sezione “recupero” del Pci fino al soggetto più pericoloso; in sezione arrivavano personalità importanti come il professor Vacca, ed eravamo 900 iscritti. E poi la domenica distribuivo l’Unità insieme al segretario, Michele Poli.
Il suo ruolo nel quartiere?
Far ridere; con alcuni amici fondai il Davanti, una presa per il culo dell’Avanti, primo vero mensile di sinistra perché si sfogliava proprio da sinistra.
Dove sono gli amici di quegli anni?
Li sento e li vedo.
E i criminali?
Un giorno accompagno mio padre al mercato e nel tragitto passiamo davanti a un bar. Mi saluta un ragazzo, un amico dei tempi del catechismo. Abbracci e affetto. Nel frattempo papà si allontana e non capisco. Lo raggiungo. “Come puoi conoscere certa gente?”. “Perché?”. “È lo spacciatore!”. “Non sapevo della sua evoluzione”.

“Quando scrivo una commedia penso di contribuire alla crescita spirituale dell’umanità”, parole sue.
Non si può lavorare puntando a vendere Coca Cola e patatine; (pausa) è importante tentare di migliorare qualcosa: l’utopia è l’elemento fondamentale della nostra professione, insieme a un senso della collettività.
Ha tre figli.
Infatti non è un caso.
Nella rottura con il produttore Valsecchi e con Zalone è stato accusato di essere esoso.
Hanno preferito non darmi quello che chiedevo: va bene.
Venale?
Sono attaccato ai soldi se il soldo rappresenta il rispetto del mio lavoro.
Spesso dà risposte brevi.
Cerco di non consumare il tempo degli altri.
Vincerà mai un David?
No, ma che c’importa?
È sicuro?
Non amo questo genere di situazioni. Ripeto: il mio è un lavoro artigianale, finito il quale la vita ti riprende.
Come sono Pio e Amedeo?
Ragazzi che non fingono: con loro c’è una grande verità. E da loro ho ricevuto fiducia.
È un regista che prima mostra la scena?
Sì e sto sempre con il cronometro in mano perché la sceneggiatura ha un tempo esatto e va mantenuto.
Tornerà come attore?
Non è per me: mi piace dirigere.
È un leader?
Sono l’unico maschio di cinque figli: già da ragazzino dovevo gestire la situazione.
Andava mai a recuperare le quattro sorelle?
Ero per il libertinaggio: prima si toglievano dalle scatole e meglio era.
Egocentrico?
A volte mi scatta sul piano politico.
Tradotto?
Sulla politica perdo il profilo basso, torna il passato, la coscienza sociale: non sopporto i discorsi grezzi e banali.
È sempre di sinistra?
Oggi ancor di più.
Un politico che ama?
Rino Formica.
Socialista.
Un genio.
Aggettivo per Zalone.
Bravo ragazzo.
Vi sentite?
Ci siamo mandati qualche messaggio.
Avete litigato?
Non litigo, troppa energia da profondere e sono pigro. Al massimo non parlo più.
Siete Mogol e Battisti.
Abbiamo fatto il nostro tempo e abbiamo realizzato cose divertenti. Basta.
Lei chi è?
Il figlio di un ferroviere. E gli ho voluto tanto bene.