la Repubblica, 2 gennaio 2022
La notte dell’euro, vent’anni fa
La richiesta di Helmut Kohl, prima ancora di salutarci, mi prese completamente di sorpresa: “Mi racconti dei suoi genitori...”. Era la prima volta che lo incontravo, nella foresteria vicina alla cancelleria a Bonn. Se, a trent’anni, non fossi stato troppo intimidito dal gigante che in quei mesi stava unificando le Germania, mi sarebbe sembrato un uomo davvero insolito, la cui passione per il potere era costruita anche sulla curiosità per le persone. Dovetti presto capire, negli anni straordinari trascorsi in Germania, come persone e poteri siano altrettanto decisivi nelle svolte della storia.
Dopo la Berlino del Muro e dell’unificazione, nel ‘94 presi casa a Francoforte, dove stava per nascere la moneta unica. Dalla firma di Maastricht fino al 1998 la questione era se l’Italia, uscita traumatizzata dai primi anni Novanta, Tangentopoli, la crisi istituzionale, gli attentati di mafia, l’aumento del debito pubblico, le continue svalutazioni della lira, sarebbe riuscita ad agganciare l’euro. Gli italiani dicevano “entrare in Europa”, come se quel passaggio – tecnicamente, la fissazione della convertibilità delle monete – li potesse affrancare da un’instabilità primordiale e farli maturare verso civiltà più evolute. E tutto sembrava seguire una sorta di destino, stretto e tortuoso, che non poteva che portare al buon esito. Tutto sembrava. Fino al 24 marzo 1998.
Non ho mai parlato a nessuno di quello che successe quel giorno. L’avevo promesso ai miei due amici o, come si dice, alle fonti. Ma in qualche misura, io stesso non avevo più voluto pensarci. È davvero strano: con entrambe quelle persone ci siamo rivisti cento volte, abbiamo fatto cene e vacanze, ma di quel giorno, del 24 marzo 1998, non abbiamo mai più parlato. Se non fosse stato per il libro dell’ambasciatore Mauro Battocchi (“La partita dell’euro: Italia-Germania tra cronaca e storia”, Bocconi editore), quei ricordi sarebbero rimasti muti. La casa di Francoforte aveva grandi finestre sul “prato di grano”, così si chiamava la strada alberata nel Nord-Ovest della città. Era uno di quei pochi, antichi e affascinanti edifici che avevano resistito ai bombardamenti della guerra. Stava grosso modo a metà strada tra il grattacielo dell’Istituto monetario europeo, il precursore della Banca centrale europea, e il palazzaccio della Bundesbank. Da tempo mi ero allontanato dall’Italia. Dopo i primi lavori da economista, ero stato assunto come corrispondente dalla Germania per Il Sole 24 Ore.
La tenacia di Roma
L’avvicinamento dell’Italia all’euro mi sembrava prematuro e velleitario, ma ero colpito dalla tenacia del governo italiano. Un giorno, al “prato di grano” suonò il telefono e il presidente del Consiglio, Romano Prodi, mi convinse di tutti i suoi buoni motivi: “ma vai a parlare tu con il cancelliere”, mi esortò. Misi in contatto Karl Lamers, uno dei consiglieri di Kohl con cui avevo confidenza, con Tommaso Padoa-Schioppa e poi andai alla cancelleria. Kohl non volle esporsi, almeno non con me, anzi disse secco: “Ho le elezioni l’anno prossimo!”. Ne parlai con Lamers alla fine del 1997 e Karl mi disse che i segnali erano meno negativi: portò il cancelliere in un ristorante italiano sul Reno a mangiare fettuccine con i funghi e alla fine, sazio, Kohl dichiarò la sua inclinazione per l’Italia: «Ho sempre pensato che fosse parte dell’Europa». Proprio come dicevano gli italiani, si trattava di entrare in Europa.
Tutto, dunque, sembrava filare per il verso giusto o, come avrebbe detto Kohl, “come l’acqua del Reno verso il mare”. Tra il 1992 e il 1998, lo spread era sceso di 600 punti. Gli investitori di tutto il mondo e i risparmiatori italiani avevano inscenato una gigantesca scommessa a una sola direzione: “all-in” sull’ingresso dell’Italia nell’euro. Se fosse fallita, molte banche sarebbero saltate. Non è azzardato dire che l’intero sistema finanziario globale avrebbe vissuto la sua peggiore crisi dal ‘29.
Sulla strada dell’Italia, l’ostacolo era la Bundesbank, il cui potere è spesso frainteso. Certo, ha costruito una sua reputazione con politiche monetarie più rigide del necessario e una retorica nevrotica. Ma il vero potere era dovuto alle sue rappresentanze regionali nei cui consigli sedevano ben remunerati quasi tutti gli economisti tedeschi. Si era creato un legame di ortodossia culturale difeso religiosamente. La presenza sul territorio faceva da sponda a una miriade di banche locali e alle associazioni delle imprese di famiglia e del Mittelstand, potenti lobby alle quali erano affiliati la maggioranza dei parlamentari tedeschi e tutti quelli più conservatori. Un intreccio di interessi basato sul conformismo culturale che si estendeva ai media e aveva plasmato il discorso pubblico. Era nella provincia meridionale tedesca che si esprimevano più netti i cliché nei confronti dell’Italia. Il crinale alpino era un riferimento funzionale alla controversa identità tedesca del dopoguerra. Definendo gli italiani buffi, corrotti o inaffidabili, si creava per antitesi un’ortodossia tedesca positiva. Quando chiesi a Hans Tietmeyer, presidente della Bundesbank, perché considerasse gli italiani tanto problematici, mi rispose con quella che mi parve una battuta mal riuscita: «Un problema di clima e di religione, credo».
La battaglia della Bundesbank
La Bundesbank era da dieci anni in uno scontro mortale con il cancelliere Kohl. Il governatore Pöhl era stato costretto a dimettersi, dopo esser stato messo in minoranza dal Consiglio della banca contrario ai piani di Kohl per l’unificazione monetaria tra le due Germanie. Il successivo governatore Helmut Schlesinger, specchio dell’anima oscura della Bundesbank, collegato ai giudici conservatori, già definito “nazionalista tedesco” dal cancelliere Helmut Schmidt, aveva attuato una politica monetaria così dura da far saltare il sistema monetario europeo, l’accordo di cambio che doveva precedere l’unificazione delle monete europee. Quando Tietmeyer, che aveva avuto un ruolo chiave nella prima elezione di Kohl, l’aveva sostituito, aveva dovuto mediare tra il sistema di potere all’ombra della Bundesbank e il cancelliere. Il punto di rottura era proprio l’inclusione della lira tra le monete dell’euro. Insieme al delfino di Kohl, Wolfgang Schäuble, Lamers aveva proposto, come compromesso, un sistema a due velocità che avrebbe visto entrare nell’euro solo le monete più forti, lasciando fuori la lira, la peseta, l’escudo e la dracma. Ma proprio la debolezza della lira, costretta a continue svalutazioni tra il ‘92 e il ‘95, spingeva gli esportatori tedeschi – nel momento di massima difficoltà dell’economia tedesca dal dopoguerra, gravata dai costi dell’unificazione – a chiedere al cancelliere di stabilizzare il cambio dei concorrenti a Sud delle Alpi. La Bundesbank fece solo finta di accettare, chiese di aspettare se il governo italiano fosse riuscito a rispettare i criteri di convergenza scritti nel Trattato di Maastricht.
La decisione cruciale dei banchieri centrali
Il Trattato europeo prescriveva che la verifica dei risultati e la selezione dei paesi ammessi all’euro avvenisse con la pubblicazione di un rapporto sottoscritto proprio dai banchieri centrali riuniti all’Istituto monetario europeo. Il rapporto doveva essere approvato il 24 marzo 1998. L’attesa per il documento era esasperata. Politici, analisti, spie, diplomatici e giornalisti di tutti i paesi erano alla disperata ricerca di un’indiscrezione. Come ricorda il libro di Battocchi, nulla trapelava dal grattacielo sulla Kaiserstrasse in cui si riunivano i governatori. Dal mattino anch’io cercavo di “scuotere l’albero”, chiamando e lasciando messaggi a tutti i miei conoscenti e soprattutto ai vertici dell’Ime. Ma né io né altri riuscivamo a ricavare alcunché.
Da Roma e da Londra arrivavano dozzine di telefonate di politici in cerca di un’indicazione o investitori che avevano scommesso fortune sull’Italia. Non avevo nulla da dir loro. A quel tempo si usavano ancora soprattutto i telefoni fissi. Quelli mobili che chiamavo erano regolarmente spenti. Le poche persone che rispondevano non sapevano nulla. Nel tardo pomeriggio, i governatori erano usciti dalla riunione con l’accordo, ma senza un annuncio, se non che il rapporto sarebbe stato pubblicato alle dieci di mattina del giorno dopo. Non c’era altro da fare che rassegnarsi e attendere.
Era oramai sera avanzata quando decisi di fare un’ultima telefonata. Non avevo più speranze, ricordo che chiamavo in piedi dal telefono sulla scrivania guardando fuori dalla finestra. Invece, una voce concitata rispose: “Siamo fuori!”. Che cosa stai dicendo, chiesi. La telefonata si interruppe. Richiamai. Nessuna risposta.
“Serious concern” (seria preoccupazione) era una formula che avevo già sentito. La stessa che era stata usata in un rapporto interno della Bundesbank che proponeva l’esclusione dell’Italia pubblicato in tedesco pochi giorni prima. Chiamai un amico che lavorava all’11° piano del palazzo della Bundesbank. Non rispose. Chiamai a casa. “Non posso parlare” fu la sua risposta. Che cosa avete combinato? Avete tagliato fuori l’Italia. “Non ci sono state obiezioni”, rispose. Il rapporto veniva approvato all’unanimità, ma senza un voto formale. Anche il governatore italiano, Antonio Fazio, quindi doveva essere stato d’accordo. Come era possibile? Scrissi di getto un breve pezzo che il giornale pubblicò in prima pagina nonostante l’ora tarda. “Seria preoccupazione per l’ingresso dell’Italia nell’euro”.
Una formulazione che era peggiore di quella assegnata alla Grecia (“continua preoccupazione”) che si sapeva da un anno non avrebbe partecipato alla moneta unica. Non c’erano dubbi, i governatori avevano deciso all’unanimità di escludere l’Italia dalla partecipazione all’euro. A quel tempo i principali giornali venivano distribuiti prima della mezzanotte nelle edicole centrali di Roma e Milano, compresa quella vicina a Palazzo Chigi. Dopo la mezzanotte ricevetti una telefonata da Fabrizio Saccomanni, amico e valente economista della Banca d’Italia, tra i più vicini all’ex governatore Carlo Azeglio Ciampi, allora ministro dell’Economia: “Sei sicuro Carlo?”. Temo di sì Fabrizio. Siamo fuori: infatti un’ammissione dell’Italia, dopo un giudizio di “seria preoccupazione”, avrebbe dato modo ai giudici costituzionali di Karlsruhe di accogliere il ricorso di incostituzionalità della partecipazione della Germania all’euro che era già stato presentato da un gruppo di economisti tedeschi. I giudici avrebbero costretto il cancelliere Kohl a rinunciare immediatamente a un progetto che lui spesso definiva “una scelta tra la guerra e la pace in Europa”.
La lunga notte
Cominciò, a mia insaputa, una lunga notte. Ciampi, informato da Saccomanni, si era aggrappato al telefono e aveva preso per il bavero i suoi ex colleghi. Come racconta Battocchi, chiamò Tietmeyer, Duisenberg, Lamfalussy e ovviamente Fazio. Secondo Battocchi, Ciampi “intimò loro”, in toni “piuttosto imperativi”, di mantenere equanimità di giudizio. Non potevano permettersi di mettere in dubbio risultati numerici netti con giudizi di valore che li avrebbero portati a sostituirsi al giudizio alla politica. Più di quanto l’Italia aveva fatto nessuno poteva onestamente chiedere, sottolineò Ciampi. Bloccare in quel momento l’ammissione dell’Italia con un fraseggio dubitativo avrebbe rischiato di avere conseguenze drammatiche sul nostro Paese di cui i banchieri centrali avrebbero poi dovuto assumersi piena responsabilità. Il ministro temeva giustamente che il giudizio sull’Italia potesse scatenare fin dal mattino un catastrofico attacco contro la lira, azzerando ogni speranza di convergere verso l’euro ed erodendo i redditi degli italiani. La Grecia, per la quale da tempo si sapeva che non sarebbe entrata nel gruppo dei primi paesi, aveva visto lo spread aumentare in un anno fino a 600 punti sopra il livello dei tassi tedeschi. I tassi italiani sarebbero potuti aumentare di altrettanto e di colpo, mandando in crisi il mercato delle obbligazioni pubbliche italiane, il terzo per dimensione al mondo, innescando un enorme detonatore per la stabilità economica globale.
Il ripensamento
Posso dire, per averne parlato con lui, che il ripensamento di Tietmeyer fu dovuto ad altro: dando all’Italia un giudizio peggiore di quello dato alla Grecia (“serious concern” anziché “ongoing concern”), di cui era già decisa l’esclusione dal primo gruppo di paesi dell’euro, i banchieri escludevano l’Italia di fatto e di diritto dall’euro. In base ai requisiti imposti dai Trattati, infatti, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di ammettere l’Italia e tener fuori la Grecia. Per i giudici di Karlsruhe non sarebbe stato necessario nemmeno condurre un’analisi di merito, avrebbero potuto impedire alla Germania di far parte dell’unione monetaria con provvedimento di urgenza e valore immediato. L’Unione monetaria europea, un progetto fondamentale per l’integrazione dell’Europa, sarebbe abortita in poche ore. Tietmeyer non volle assumersi la responsabilità di sabotare, a sei mesi dalle elezioni federali, il cancelliere Kohl che aveva posto tutto il suo peso politico sul progetto di unire l’Europa dopo aver unificato la Germania.
Alla pubblicazione della notizia, seguì – spiega Battocchi – «un concitato giro di telefonate tra le banche centrali europee. Il Consiglio dei Governatori fu riconvocato e approvò una nuova versione rispetto a quella concordata la sera prima. La preoccupazione non era più definita seria, bensì continua», proprio come per Grecia e Belgio. Quanto bastava per trasformare la valutazione sull’Italia da negativa a neutra.
Per una volta, le persone, più che i poteri, avevano deciso la storia. Alla mattina del 25 marzo, con un ritardo che nessuno sapeva spiegare, con i mercati finanziari di tutto il mondo in febbrile attesa, ignari di quello che era successo nella notte, nell’atrio dell’Ime sulla Kaiserstrasse fu consegnata alla stampa mondiale una copia mal rilegata del Rapporto, ristampata in tutta fretta nelle ore del mattino. Poche settimane dopo, i capi di governo europei poterono celebrare la nascita dell’euro.