Anche nel 2021 il pianeta carcere è finito sui giornali per il sovraffollamento, per il Covid, per i maltrattamenti, per i mafiosi che vogliono liberarsi dal 41bis. E invece ecco una novità, 15.827 detenuti lavorano. E cambiano anche vita. È solo un dato del Cnel?
“È un dato confortante. E ci spinge a premere proprio su questo tasto. Le prospettive di incremento lavorativo sono tante, direi tantissime. Insieme alla ministra Cartabia stiamo sperimentando anche ipotesi innovative, e se la pandemia rallenta la sua morsa, ne sentiremo presto parlare. Questo da Nord a Sud.
Fermo il discorso che se si riuscisse a far lavorare tutti i detenuti, i problemi della realtà penitenziaria ne risentirebbero in positivo».
Addirittura 54mila persone potrebbero lavorare tutte?
«Tra queste bisogna distinguere tra i detenuti definitivi e quelli ancora sotto giudizio. Il lavoro appartiene a tutti, ma il risultato più intenso lo si ha con chi è definitivo, anche se non mancano molti esempi di lavoranti giudicabili».
Isole di pregio quelle del lavoro o il carcere cambia faccia?
«I lavori sono di tanti tipi, alcuni di vera eccellenza. Ne cito alcuni di cui ho cognizione diretta. La digitalizzazione dei processi più importanti della Repubblica. Il processo Moro è in corso, si sta per iniziare il più voluminoso di tutti i tempi, quello di Ustica, e poi il processo Gelli, per i quali sono state già bandite le gare per il tutor e l’acquisto degli scanner».
E dove succede?
«A Rebibbia. Lo stesso carcere in cui una decina e più di detenuti fanno un lavoro di alta specializzazione e umanità. Gestiscono il call center dell’ospedale Bambin Gesù di Roma.
Ho visitato la sala dei “telefonisti” che rispondono alle chiamate continue e pressanti soprattutto di genitori e di parenti. Ma c’è molto di più…».
Altri lavori utili per la collettività?
«Cito tre casi molto significativi. La rigenerazione di modem della Linkem che escono come nuovi dal carcere di Lecce e da Rebibbia femminile. Posso rivelare che i manager dell’azienda mi hanno confessato che questa manodopera è di gran lunga superiore a quella esterna. Poi la bonifica del parco Rogoredo di Milano. E la pulizia dei giardini e delle coste dell’isola di Favignana».
Lei ha fama di essere un capo Dap che non sta chiuso a largo Luigi Daga.
«Voglio citare esperienze che mi hanno lasciato il segno. Talvolta, quando giro le sezioni degli istituti, mi sento chiamare per nome e cognome, e mi rendo conto di come il rapporto di distacco vissuto da magistrato si sia trasformato in qualcosa di più umano».
Lei quanto gira nelle carceri?
«Anche due istituti a settimana, ed è colpa del Covid se il giro non è completo. Ma in istituti problematici sono tornato più volte per verificare se quello che non andava è stato messo a posto».
Come si lavora in una piccola cella? Non è una contraddizione?
«Di certo non è l’unica. E mi riferisco a quando scopro che in quei pochi metri talvolta manca l’acqua calda, o non funzionano gli scarichi. Per questo torno più volte, e pure a sorpresa. Però mi colpisce sempre l’ordine quasi maniacale che vedo nelle celle. Per non parlare delle camere delle donne, colorate e ricche di ninnoli e di ricordi».
Lei parla di donne, e che mi dice dei bimbi in carcere con le loro mamme? Diamo loro una speranza.
Il 2022 sarà l’anno giusto per farli “evadere”?
«Il nido di Rebibbia è vuoto e negli istituti ci sono 16 donne e 18 bambini piccoli, ma come dice la ministra Cartabia, che si sta adoperando molto per questo doloroso problema, “anche un solo bimbo in carcere è troppo”. Allora, da capo del Dap dico ai miei colleghi magistrati e al Parlamento che questa drammatica questione va risolta con il contributo di tutti».
Il Covid. A oggi 588 detenuti e di 657 agenti positivi. Una battaglia che non si riesce a vincere?
«Quest’ennesima ondata, purtroppo, colpisce pure le carceri, dove abbiamo però anche percentuali altissime di vaccinazione: al momento le dosi sono oltre 95mila.
Grazie ai protocolli con le Asl e al pressing continuo sulle Regioni ci sono pochissimi sintomatici e qualche ricoverato, poiché tutti gli altri sono asintomatici».
Il 2021 sarà ricordato come l’anno dei detenuti picchiati a freddo a Santa Maria Capua Vetere e degli agenti violenti arrestati.
Com’è stato possibile?
«Quello che io chiamo un tradimento della divisa si è scoperto grazie alla scrupolosa attività di un magistrato di sorveglianza. Da quella vicenda è scaturito un nostro rigore estremo, anche per scongiurare il rischio di un trascinamento in questa vergogna dell’intero corpo della Polizia penitenziaria che invece dà continui segni di essere sano».
Draghi e Cartabia, quando hanno visitato quel carcere il 14 luglio, hanno detto: “Non c’è giustizia dove c’è abuso”. Se lei fosse un detenuto dormirebbe tranquillo in una patria galera?
«Quella visita è stata un momento importante, ma la verità è che in nessun istituto si dorme tranquilli.
Non dimentichiamo mai che sono luoghi di prigionia. E uso apposta questo antico termine che fa comprendere come lì si venga tristemente privati del bene prezioso della libertà. Quando vinsi il concorso in magistratura, mio suocero penalista mi disse che per ogni toga sarebbe utile vivere per qualche settimana la vita del carcere. Adesso capisco fino in fondo quelle parole».