la Repubblica, 2 gennaio 2022
Impressioni del settennato di Mattarella
Proprio nel momento in cui, l’altra sera, il presidente Mattarella cominciava il suo ultimo discorso televisivo una insolita coltre di nebbia si è posata sulla Capitale. Alla fine del collegamento dal Colle era sempre più densa e ovattata, tale da nascondere le festose luminarie dei fuochi della mezzanotte. Allo stesso modo le incoraggianti parole di Mattarella hanno comunque lasciato al buio la vita pubblica e il destino stesso dell’Italia.
Ci sono eventi della natura, a loro modo straordinari, che fanno simbolo. E l’offuscamento del 31 dicembre evoca la più esemplare, e compiuta immagine del distacco, dell’incertezza e dello straniamento, con tanto di rimando ai sacri testi: “Tra ‘l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta” (per dirla con Guicciardini).
Dispiace qui insistere con presagi e ulteriori corbellerie oracolari, ma fra la meteorologia e il potere esistono dei legami che, scavalcando la razionalità, tanto più paiono irresistibili in tempi bui. Così il 30 gennaio del 2015, due giorni prima dell’elezione, mentre era in corso la terza votazione un vento fortissimo stracciò la bandiera tricolore in cima al Torrino del Quirinale; quindi sopraggiunse una forte pioggia, culminata in grandine notturna. Di buon mattino, poco prima che a Montecitorio andasse in scena l’elezione di Mattarella, il fotografo Fabio Cimaglia ebbe la fortunata abilità di effettuare un magnifico scatto nel quale il chiarore di un arcobaleno rompeva il cielo collocandosi con perfetta simmetria fra la scultura equestre dei Dioscuri e il palazzo del Quirinale. Volendo strafare, quella foto era presa ai piedi del Palazzo della Consulta, nella cui foresteria in quell’istante si trovava, abitandoci, lo stesso Mattarella.
Forse sette anni sono veramente troppi; specie se, rotto lo specchio dei partiti e delle istituzioni, sono stati sette anni di guai; e ancora più se per via di una crisi economica ed emergenza sanitaria, sono stati sette anni anche di vacche magre, magrissime. Eppure, a dispetto della superstizione e dell’Antico Testamento, il settennato di Mattarella appare oggi generalmente impeccabile.
L’altro ieri sera le reti televisive l’hanno riproposto nei suoi passaggi, pure con qualche scontata pigrizia encomiastica e bislacco accompagnamento sonoro (lo Schiaccianoci). Fa piacere sapere che egli non si sia “mai sentito solo”, anche se in tutta sincerità resta l’impressione che sia stata esattamente la sua solitudine umana e politica, il suo essere irriducibilmente altro rispetto all’odierna classe politica, ciò che ha reso la presenza di Sergio Mattarella un vantaggio più unico che raro al vertice della Repubblica. Arrivato lì senza più un partito, con gli amici di una vita scomparsi, e vedovo. Un anziano signore prossimo agli 80, le spalle curve sotto il peso di una storia drammatica, le braccia avare di gesti, un’espressione che oscillava fra un sorriso tenue e un’ombra di malinconia, un’oratoria senza svolazzi, a voce bassa e sussurri, una discrezione al giorno d’oggi davvero inusitata, una serietà per certi versi sconvolgente, una dignità che nel perenne carnevale politico si era più che dimenticata.
“Uno Scalfaro minore” disse Berlusca; per altri fu “la Mummia”; altri spiritosi si dilungarono sul fatto che possedeva una Panda grigia e trovarono una somiglianza che ibridava il dottor Stranamore e Malgioglio; “uno zio sfigato nel tinello” lo bollò Oliviero Toscani dopo il primo messaggio. In realtà la fiducia che fin dall’inizio suscitò Mattarella era tanto più potente quanto più evidente il collasso di credibilità che, ormai ai limiti dell’euforia e del delirio, trasmetteva la classe politica.
In più, eccezionale e prezioso carisma, non solo sapeva comprendere la sofferenza altrui, ma con imperturbabile naturalezza si spingeva a considerare la fragilità una via di salvezza. È possibile che tali virtù, accompagnate da una straordinaria pazienza, l’abbiano guidato nel no a Savona e a Lagarde, o dinanzi all’impeachment televisivo annunciato da Di Maio; così come il suo essere uomo d’altri tempi e d’altre temperie l’ha ispirato a reggere le intemerate di Salvini, le corse di Ciampolillo o il pressing di Trump che in un indimenticabile video si ostinava a chiamarlo Mozzarella, e dopo ogni battuta occhieggiava verso i giornalisti.
La dignità è oggi risorsa assai poco reperibile, e senz’altro vale più del pop, a cui pure Mattarella ha saputo adattarsi. Ma la nebbia l’altra notte era fitta – e anche se poi si è diradata, sta ancora lì.