Corriere della Sera, 2 gennaio 2022
Chi è chi in Don’t look up
«Sapete quante riunioni sulla fine del mondo abbiamo fatto? Crisi economica, armi nucleari, intelligenza artificiale ostile, inquinamento atmosferico, siccità, carestie, epidemie, crescita demografica, buco nell’ozono...».
Basta questa frase-chiave, pronunciata dalla presidente degli Stati Uniti, a spiegare perché «Don’t look up» è il film dell’anno: sia di quello appena concluso, sia di quello appena cominciato. Perché, inventandone una immaginaria – la cometa in rotta verso la Terra —, riesce a raccontare e persino a farci ridere delle varie emergenze che ci sovrastano. A partire dalla più grave: il discredito della politica e dell’informazione.
La presidente Janie Orlean, interpretata da una Meryl Streep che si conferma a ogni occasione la più brava, è una sorta di Donald Trump donna. Viene dal business e dallo spettacolo. È di una superficialità disastrosa, però ha il polso del pubblico, possiede il senso del Paese. Il suo braccio destro è il figlio (peraltro più impreparato di Ivanka). È palesemente repubblicana, anche se il dettaglio non viene esplicitato proprio perché in fondo si tratta di un dettaglio: sulla scrivania dello Studio Ovale tiene una foto che la ritrae abbracciata a Clinton, come a chiamare in causa pure i democratici. La presidente all’inizio non presta credito alla minaccia, nel timore che le costi le elezioni di mid-term; salvo poi cavalcarla, per distogliere l’attenzione da uno scandalo sessuale (ha mandato foto intime al suo partner, che ha candidato alla Corte Suprema).
Ma un presidente inadeguato e cialtrone l’abbiamo già visto; e forse più d’uno. Il vero malvagio del film è Peter Isherwell, terzo uomo più ricco al mondo, re dei telefonini Bash, racchiuso in una battuta meravigliosa: «È quello che ha comprato la Bibbia di Gutenberg e poi l’ha persa». Isherwell è insomma uno Steve Jobs redivivo, con una spruzzata di Bill Gates (le Bibbie di Gutenberg sono in realtà decine, mentre il Codice Leicester di Leonardo è uno solo, ed è suo) e di Elon Musk: non a caso Isherwell ha già pronta la navicella spaziale per sfuggire alla catastrofe, alla ricerca di un pianeta dove trapiantare la vita umana, a cominciare ovviamente dalla propria. Come i veri padroni della Rete, Isherwell sa tutto di noi, compreso il modo in cui moriremo. Sa che pure chi si crede idealista in realtà non fa altro che sfuggire il dolore e inseguire il piacere. Ed è l’unico a capire fin da subito che il pericolo è davvero serio; ma non al punto da rinunciare a trarne profitto. Anche perché la presidente è cera nelle sue mani di finanziatore e manipolatore.
Con otto anni di anticipo sui tweet di Trump, il primo presidente a usare la Rete, o a illudersi di poterlo fare, era stato Obama. Spinto alla Casa Bianca anche da un’accorta campagna digitale, pensò di poter proseguire a cavalcare la tigre, e chiese ai follower: quali sono le prime cose che volete faccia? Nessuno parlò di tasse o di lavoro; al presidente afroamericano venne chiesto di liberalizzare gli spinelli e di rivelare i segreti sugli Ufo. Ma la Rete e i social non hanno solo banalizzato la politica. Hanno rubato l’anima all’informazione.
Respinti dalla presidente, i due scopritori della cometa – un Leonardo DiCaprio insolitamente sfigato e una Jennifer Lawrence con anellino al naso e frangetta rosso carota – si rivolgono a un grande giornale, chiamato New York Herald, a evocare il New York Times (che l’ha presa con autoironia: nella recensione ha citato «un quotidiano newyorkese celebre per la testata in caratteri gotici», come a dire: il film parla proprio di noi). Ma i giornalisti, affiancati dagli esperti di algoritmi, si disinteressano di una storia che attira pochi clic; anche a causa della disastrosa performance dei due scienziati al talk del mattino, dominato dalla riconciliazione tra una coppia di influencer, un dj e una cantante impegnata nella difesa dei lamantini (Ariana Grande, di fatto nella parte di se stessa).
In quel regno della futilità che può diventare la Rete, la notizia della fine del mondo all’inizio non viene considerata. Poi genera l’ondata di complottismo che abbiamo già visto crescere con la pandemia. Solo alla fine, quando è troppo tardi, si corre ai provvedimenti: le Nazioni Unite progettano invano una missione; Cina, Russia e India la organizzano di nascosto ma falliscono (forse boicottate proprio da Isherwell); Ariana Grande manda al diavolo i lamantini e trascina altri influencer nella lotta; però la presidente invita i suoi elettori a non guardare in alto la cometa che si avvicina – appunto «don’t look up» —, tanto l’allarme è roba da radical chic.
Il resto della trama è già noto (il Corriere se n’è occupato per primo in Italia grazie ad Aldo Grasso), e in ogni caso non vogliamo rovinare sorprese. È interessante però notare quanto il film parli di noi cittadini del 2022. Il mondo che descrive è il nostro; ed è anche quello dei produttori e degli attori. A finanziarlo è Netflix, altro padrone della Rete, geniale e spietato killer delle sale cinematografiche: l’opera è uscita in quelle americane il 10 dicembre, ma non se n’è accorto quasi nessuno; il confronto tra fan e critici è esploso quando è arrivata in streaming con il Natale. Il cachet dei protagonisti ha portato il suo sassolino alla montagna delle disuguaglianze globali: 25 milioni di dollari per la Lawrence, 30 milioni per DiCaprio (in compenso i due si sono presi cura della Streep. Leonardo non voleva che posasse nuda nella scena finale, dove in effetti è sostituita da una controfigura; e la Lawrence la chiamava devotamente Goat, acronimo di «greatest of all times», la più grande di tutti i tempi; anche se Meryl all’inizio ha capito che la giovane collega le desse della capra, goat appunto).
Alcune chicche tra le tante: le immagini tenere degli ippopotami e altri animali di grande taglia che coccolano i cuccioli, inserite come perfida parodia delle carinerie su Internet e degli stilemi dei film catastrofici; e il rude guerriero che cade da miles gloriosus sparando alla cometa e urlando: «Non mi avrete mai vivo!».
Speriamo di poterlo dire pure noi in questo 2022; ma solo per scherzo, e con il sorriso che il film di Adam McKay ci regala.