Corriere della Sera, 2 gennaio 2022
Gli sherpa in politica
In principio fu lo sherpa, trasposizione politica dell’eroico popolo che porta in vetta gli alpinisti. Lo caratterizzano indole socievole, mite e prudente, resistenza alla fatica, grande rispetto della dignità degli esseri umani: anche quando infrangono vistosamente il codice morale lo sherpa li proteggerà e mai, per nessuna ragione, li esporrà al pubblico disprezzo. Merce rara lo sherpa, in questo rapido avvicinarsi all’arrampicata al Colle, tanto è vero che i leader tendono a non fidarsi di nessuno e a far da soli, oppure a valersi dei compagni di una vita, di fede provata. Ne è esempio Silvio Berlusconi, che ha passato le feste natalizie al telefono: alzi la mano, tra i grandi elettori, chi non ha avuto una sua chiamata, con tanto di auguri alla famiglia per un felice anno nuovo. Al lavoro per lui, solo in teoria, c’è tutto il centrodestra ma le chiavi della dispensa ce le ha solo la vecchia guardia: ovviamente il gran ciambellano Gianni Letta, e Fedele Confalonieri, che ha chiesto anche di incontrare Luigi Di Maio, a riprova che la ricerca di benevolenza nei Cinque Stelle non è solo un atto di pirateria. Certo, si dà molto da fare anche Renato Brunetta, che però sembra non disdegnare un piano B, con Mario Draghi al Quirinale e un margine risicato, ma mai dire mai, per lui come presidente del Consiglio.
Si muove al momento in chiave anti Draghi Giuseppe Conte, offeso per aver dovuto fare il vaso di coccio sul fronte Rai, e si avvale anche dei consigli di una delle eminenze grigie del Partito democratico, Goffredo Bettini. Luigi Di Maio fa invece da sé, al momento in chiave pro Draghi, sempre che il premier sappia districare la matassa e indicare un nome credibile per la sua successione a Palazzo Chigi, scongiurando le elezioni anticipate.
Anche Giorgia Meloni fa più o meno da sola, forte dell’asse draghiano con Enrico Letta, e lascia un po’ di corda lunga a Ignazio La Russa, ma soprattutto al cognato Francesco Lollobrigida, marito di sua sorella Arianna. I legami familiari sono una traccia interessante da seguire nelle trattative per il Colle: se per Giorgia Meloni c’è un cognato, se Letta e Confalonieri per Berlusconi sono più che fratelli, per Matteo Salvini, oltre all’abile Roberto Calderoli, c’è un quasi suocero, quel Denis Verdini padre della sua fidanzata Francesca e anello di congiunzione per il fitto dialogo con l’altro Matteo, quel Renzi che timona la nave pirata più attrezzata per le incursioni sul Colle. Il senatore toscano fa da sé per definizione, ma certo si fida di Ettore Rosato e di Maria Elena Boschi.
Non sfugge alla regola del più o meno parenti nemmeno il segretario del Pd, Enrico Letta. La partita del kingmaker, come gli altri leader, se la gioca soprattutto in prima persona, visto che non può fidarsi di nessuno e visto che gli stranoti sgambetti dello «stai sereno» hanno aggiunto al suo carattere una durezza sconosciuta all’Enrico delle origini. Ma certo si consulta molto con Filippo Andreatta, che è quasi un fratello, per il rapporto di vicinanza culturale e politica che il segretario del Pd ha avuto con il padre di Filippo, Beniamino. Ma si «serve» molto anche di Marco Meloni e delle due capogruppo: Simona Malpezzi e Debora Serracchiani. Due donne. Sarà per questo che l’ala ministeriale del Pd, tutta maschile, si batte perché Draghi resti a Palazzo Chigi? In caso di nuovo governo almeno uno se non due maschietti dovrebbero fare largo alla differenza di genere. Anche se un posto, non si sa mai, potrebbe liberarlo Dario Franceschini, segnalato come molto attivo in proprio nella scalata al Colle. Gioca una partita sua pro Draghi anche il leghista Giancarlo Giorgetti che non rinuncia a cercare di «far ragionare» Salvini. E se Berlusconi telefona a tutti, Pier Ferdinando Casini risponde a chiunque lo chiami, caratterizzandosi come la riserva della Repubblica con più capacità di ascolto.
Il gruppo misto dalle mille teste resta invece un mistero in gran parte ancora insondabile, sempre in bilico tra la ricerca di un’unità che possa segnare l’elezione del capo dello Stato e il diventare invece territorio di scorribande per candidati in cerca di voti.
Insomma, nel Parlamento della decadenza che si appresta, alle prossime elezioni politiche, ad avere 345 deputati e senatori in meno, nulla è più lontano dall’intuizione di Gianni Rodari. Ricordate? «Filastrocca del gregario/corridore proletario/che ai campioni di mestiere/ deve far da cameriere/ e sul piatto, senza gloria/ serve loro la vittoria». Mai come questa volta i leader, se vogliono diventare kingmaker, devono rassegnarsi ad essere camerieri di se stessi. Senza dimenticare che sulla via del Quirinale si può essere illuminati, ma si corre anche il rischio di bruciarsi.